Era il 2008 quando Satoshi Nakamoto, un’identità ancora oggi sconosciuta, creò la prima criptovaluta al mondo, i Bitcoin, una moneta digitale dal sistema decentralizzato: “[le] criptovalute sono strumenti che, basandosi sui principi della crittografia, permettono ad una rete di persone che non si conoscono tra loro di generare moneta e farla circolare, in assenza di un’autorità centrale che ne convalidi le transazioni”[1].
Sebbene proprio lo scorso 24 marzo Elon Musk abbia comunicato con un tweet che negli Stati Uniti è ormai possibile acquistare Tesla con i Bitcoin e che presto, nel corso dell’anno, lo sarà anche in altri Paesi, ad oggi, i Bitcoin restano riserve di valore e strumenti speculativi e non mezzi di scambio, coinvolti in un dibattito ancora ampiamente discusso, relativamente alla quantità di energia consumata per il cosiddetto “mining”.
L’estrazione dei Bitcoin
Nel sistema dei Bitcoin, a differenza di quello bancario, non esiste una struttura centralizzata che faccia da intermediaria e da garante nelle transazioni e, al posto dei database bancari, esiste, infatti, “un unico libro mastro, un registro […] aggiornato minuto per minuto da una rete di migliaia di contributori anonimi in giro per il mondo”[2], conosciuti con l’appellativo inglese di miners, ovvero di “minatori”.
Il libro mastro digitale creato da Satoshi Nakamoto è il risultato della combinazione dei più avanzati studi di crittografia, di tecnologia P2P (peer-to-peer […]), e un accurato sistema di incentivi all’azione.
VALORI
Il compito dei miners, dunque, è quello di “estrarre” i Bitcoin da questo libro mastro, costituito da “blocchi” e da transazioni che devono essere convalidate: la tecnologia che è alla base della creazione della criptovaluta è detta, infatti, proprio “blockchain“, letteralmente “catena di blocchi”. Ogni volta che, risolti complessi calcoli matematici, una transazione passa da un blocco a quello successivo, venendo registrata nel processo, i miners,che hanno messo a disposizione gli hardware (processori, schede video e GPU) dei propri computer prima e i processori ASIC (application specific integrated circuit) dopo e che sono stati i più veloci nel trovare la soluzione, ottengono i Bitcoin appena emessi – in una quantità regolamentata dallo stesso Satoshi – come remunerazione per lo sforzo computazionale. Questa ricompensa, che costituisce sempre la prima transazione di ogni blocco, viene detta “coinbase”.
Intrapresa come attività domestica, evolutasi all’aumentare della competizione e della difficoltà in attività industriale, tanto che sono sorte delle vere e proprie aziende minerarie (farm), è facile dedurre, a questo punto, quanto quella del mining sia un’attività “energivora” – d’altronde, l’hashrate, ovvero la potenza di calcolo della rete dei Bitcoin, è ai suoi massimi storici – e perché Elon Musk e Tesla siano stati criticati per sostenere le criptovalute, in generale, e per investire in BTC.
Ma facciamo un po’ di chiarezza…
Il consumo energetico dei Bitcoin
I ricercatori del Centre for Alternative Finance dell’Università di Cambridge hanno ideato un tool per il calcolo e la registrazione dei consumi di energia elettrica dei Bitcoin, il Cambridge Bitcoin Electricity Index, arricchendo una sezione apposita del sito con una serie di comparazioni per rendere i dati relativi al consumo elettrico generato dall’attività estrattiva della moneta digitale di facile lettura per tutti i visitatori che desiderano consultarli.
Ovviamente, questi dati vengono aggiornati di volta in volta sulla base del valore del mercato della criptovaluta e, dunque, di una più o meno intensa attività di mining.
Così, ad esempio, non molto tempo fa (solamente lo scorso 10 febbraio), la BBC dichiarava in un suo articolo[3] che i Bitcoin consumano più elettricità dell’Argentina (125,03 TWh), ma, ad oggi, si sono sorpassate ormai sia l’Ucraina (128,806 TWh) che la Svezia (131,798 TWh): in data 1 aprile 2021, infatti, il consumo annuo di elettricità dei Bitcoin risulta essere pari a 137,85 TWh, equivalente a poco più del consumo di una nazione come la Svezia, per l’appunto.
Sul podio dei maggiori consumatori di elettricità al mondo troviamo la Cina al primo posto (6453,17 TWh), gli Stati Uniti al secondo (3989,57 TWh) e l’India al terzo (1277, 17 TWh). L’Italia si posiziona tredicesima nella classifica con un consumo annuo di elettricità pari a 297,15 Twh. I Bitcoin sono ventisettesimi.
Infine, sul sito del centro di ricerca dell’Università di Cambridge si possono leggere anche un paio di curiosità: gli studiosi, infatti, hanno calcolato che la quantità di elettricità consumata dai Bitcoin in un anno potrebbe alimentare tutti i bollitori da tè utilizzati in Gran Bretagna per un arco di tempo pari a 31 anni, ma anche che quella consumata da tutti gli elettrodomestici lasciati inutilmente accesi, ogni anno, negli Stati Uniti, potrebbe alimentare, da sola, il mining di Bitcoin per più di un anno e mezzo.
Il dibattito
Se ci si chiede, dunque, se i Bitcoin abbiano o non abbiano un impatto negativo sull’ambiente, la risposta, allora, non potrà che essere un sì. È opportuno, però, indagare meglio il perché. E, in realtà, la questione è molto semplice: solamente per il 39% del mining globale si fa ricorso a fonti di energia rinnovabili[4].
“Consumo di elettricità”, infatti, non è direttamente proporzionale ad “inquinamento ambientale”, si può trovare un compromesso[5] e a farlo devono essere i Governi, poiché non si tratta soltanto di disponibilità di risorse, ma anche di scelte politiche. Il coinvolgimento – pur necessario – della politica è stato definito il “tallone d’Achille” di questa criptovaluta[6].
Fatto sta, comunque, che la maggior parte del mining per i Bitcoin viene fatto in Cina, dove la principale – perché più economica – fonte di energia è il carbone, la peggiore nei termini di inquinamento ambientale e incidenza climatica. Tuttavia, è vero che i cinesi sono, al mondo, i primi produttori e consumatori di questo combustibile solido, ma è anche vero che l’urgenza di decarbonizzare la produzione di energia elettrica riguarda praticamente tutti, non solamente loro.
Fondamentalmente, tra i vari interrogativi che sorgono, anche spontanei, c’è, alla fine, un’unica vera domanda da porsi: quando riusciremo a dire addio al carbone?
Questo è il dilemma.
SHAKESPEARE
Bitcoin vs. Oro
Come riportato dalla ricercatrice dell’Università di Pittsburgh, Katrina Kelly-Pitou, in un articolo sopracitato, il consumo energetico delle banche non si discosta molto da quello dei Bitcoin, aggirandosi, infatti, intorno ai circa 100 TWh annui[7].
L’italiano Simone Brunozzi, invece, nell’articolo “Bitcoin and pollution – the definitive answer” pubblicato su Medium lo scorso 8 febbraio, propone un’interessante comparazione tra l’attività estrattiva dei Bitcoin e quella dell’oro, nonché tra i due beni rifugio stessi.
Brunozzi riferisce che ogni anno vengono estratte all’incirca 3000 tonnellate di oro – contro un numero pari a 328,5000 BTC annui- e che secondo dei semplici calcoli questa estrazione risulta essere all’incirca 50 volte più costosa del mining di Bitcoin e, pertanto, anche decisamente più inquinante. L’autore dell’articolo definisce il risultato dell’attività di estrazione dell’oro un vero e proprio disastro ambientale, tenendo conto di: avvelenamento delle acque, estinzione delle comunità indigene, scarti e sprechi solidi… Basti pensare che per la realizzazione di una sola fede nuziale si produce un quantitativo di 20 tonnellate di spreco.
Se qualcuno con una fede al dito dovesse lamentarsi dell’inquinamento da Bitcoin, per tutta risposta, allora, potreste puntualizzare dicendo che cosa abbia significato per l’ambiente la realizzazione di quell’anello: è questa una delle provocazioni con cui Simone Brunozzi conclude il suo articolo.
Un mining a “scadenza naturale”
Tornando a noi, è bene sapere che anche per l’attività del mining di Bitcoin è stata prevista una fine, una data di scadenza, ovvero un numero massimo di emissioni oltre le quali non sarà più possibile procedere con l’estrazione delle monete digitali: sono 18,670,993.75 i Bitcoin già emessi e 2,329,006.3 quelli ancora da estrarre.
A questo punto, è proficuo continuare a dibattere solo e soltanto intorno alla realtà dei Bitcoin o si può ritenere che sia finalmente arrivato il momento di passare all’azione per rendere il nostro un pianeta con meno greed e più green?
[1] Claudia Vago, Domenico Villano, “Storia del bitcoin: come è nato e cosa è diventato oggi”, Valori, 8 febbraio 2021. Consultabile al seguente indirizzo https://valori.it/bitcoin-blockchain-storia-oggi/.
[2] Ibidem.
[3] Cristina Criddle, “Bitcoin consumes ‘more electricity than Argentina’”, BBC, 10 febbraio 2021. Consultabile al seguente indirizzo https://www.bbc.com/news/technology-56012952.
[4] Jonathan Spencer Jones, “Renewables powers almost 40% of proof-of-work cryptocurrency mining”, Smart Energy International, 29 settembre 2020. Consultabile al seguente indirizzo https://www.smart-energy.com/renewable-energy/renewables-powers-almost-40-of-proof-of-work-cryptocurrency-mining/.
[5] Cfr. Katrina Kelly-Pitou, “Stop worrying about how much energy bitcoin uses”, The Conversation, 20 agosto 2018. Consultabile al seguente indirizzo https://theconversation.com/stop-worrying-about-how-much-energy-bitcoin-uses-97591.
[6] Frances Coppola, “Bitcoin’s Need For Electricity Is Its ‘Achilles Heel’”, Forbes, 30 maggio 2018. Consultabile al seguente indirizzo https://www.forbes.com/sites/francescoppola/2018/05/30/bitcoins-need-for-electricity-is-its-achilles-heel/?sh=190e16e22fb1.
[7] Cfr. Katrina Kelly-Pitou, cit.
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Autore articolo
Federica Fiorletta
Redattrice
Laureata in Lingue, Culture e Traduzione Letteraria. Anglista e francesista, balzo dai grandi classici ottocenteschi alle letterature ultracontemporanee. Il mio posto nel mondo è il mondo, viaggio – con il corpo e/o con la mente – e vivo per scrivere.