Nei film appartenenti alla Trilogia della vita (Decameron [1970], I Racconti di Canterbury [1971] e Il fiore delle Mille e una Notte [1974]) che precedono di pochissimi anni la realizzazione di Salò, o le 120 giornate di Sodoma (1975) – uno dei film più discussi, controversi e censurati della storia del cinema italiano – Pier Paolo Pasolini ricostruisce le gesta e le immagini di una umanità pura, incolta, incontaminata, che vive l’esperienza sensibile delle passioni e degli istinti in una continua ansia di voler rievocare l’universo perduto di una sorta di età primigenia del “pane” che, contrapponendosi alla volgare “blasfemia sociale” del tempo presente, pur facendo dell’universo sensibile del godimento e delle passioni momenti fondamentali per una possibile ricostruzione della realtà dei corpi messi in scena, ne è la totale negazione.
Per Pasolini la Trilogia della vita non è altro che rappresentazione e negazione stessa della vita o, meglio, la rappresentazione pittorica di un qualcosa che non esiste più: un cumulo di macerie su cui si erige l’Idolo borghese. Il passato viene ricomposto, ricostruito, ridotto a pura scenografia che non possiamo fare altro che osservare con triste e lacerante nostalgia.
Possiamo definire la Trilogia come sacca storica di negazione, rappresentazione di una negazione, della mancanza di vita che spalancherà i battenti all’Inferno di Salò che, nella propria identità filmica, si manifesta come occasione per svelare le macerie di un presente assassino. Il mondo invivibile della Trilogia manifesta, in Salò, il proprio volto crudelissimo: testimonia quel bisogno poetico, da parte del regista, di voler afferrare quei residui dell’esistenza umana all’interno della totale mancanza di vita. Salò, quindi, è il culminante momento di ricerca di un ideale puro all’interno della totale degenerazione.
Salò, pertanto, nasce come riscrittura cinematografica del romanzo Le centoventi giornate di Sodoma di Sade, il grande poeta della perversione e della mancanza di vita che è stato in grado di fondere insieme due diversi sistemi di comunicazione: la scrittura, il discorso, la parola e la sessualità, il corpo, la natura organica di cui la parola è fatta. L’arte di Sade ha una doppia natura dal punto di vista del significante: le parole sono sempre immagini fisiche, feticistiche, rimandano sempre ad una componente biologica, scientifica, anatomica, da referto medico. La grammatica del corpo è strutturata secondo le regole della retorica e del metrum. La parola si veste della stessa materia di cui il corpo è fatto creando, così, degli spazi di visibile all’interno del sensibile: essa (la parola) è immagine corporea ed ha vene, tessuti, ossa, sangue e genitali. La parola, in Sade, diviene lo strumento con cui si cerca di dare forma ad un corpo perfetto, con l’intento di costruire quella “grande e disumana bambola di negazione”, in riferimento ad un concetto caro a Roland Barthes, ibrida immagine intrisa di sesso, violenza, sofferenza, piacere, sacralità, voyeurismo da intestino o da tubo di scarico.
L’operazione di Pasolini sul romanzo di Sade si proietta direttamente, attraverso il linguaggio sadico delle azioni e delle violenze, verso una riflessione sul Potere che, per lo scrittore francese, rappresenta quella forza che spinge l’individuo ad una regolarizzazione calvinista delle proprie azioni in modo che, una volta riconosciuto il sovrano, e quindi il Potere, come personificazione e mezzo per giungere all’immagine di Dio, l’individuo perda quella purezza originaria attraverso la propria sistemazione o regolarizzazione. L’universo sadico del potere dei signori libertini e protagonisti del film, quindi, diviene una sorta di altra realtà all’interno del mondo, quasi fosse uno spazio aperto sulla superficie della Storia che tradisce, deforma e conferma il mondo su cui questa alterità si sviluppa.
I Signori di Sade, pertanto, rappresentano la forma ideale di Potere anarchico, individualisticamente aristocratico, che è sistema e regola: se nella poetica di Sade il procedere verso l’immagine anarchica del Potere si concretizza nel puro discorso – pura immagine di se stesso proprio perché spinge e costringe all’esercizio dell’immaginazione – in Salò di Pasolini l’anarchia del Potere si vede concretamente, la possiamo percepire attraverso una dilatazione dei nostri sensi. In Sade arriviamo all’immagine attraverso l’esplicarsi del discorso ed allo spandersi della parola–sperma; in Pasolini, invece, il procedimento dell’immaginazione si sviluppa dall’immagine stessa, lo spettatore spia l’immagine ed il processo di immaginazione si reitera all’infinito. A tal proposito, una delle ossessioni di uno dei personaggi del film (il Monsignore) è la possibilità di reiterare il gesto assassino all’infinito proprio perché in tale dilatazione temporale regna il più feroce istinto al godimento.
Attraverso i tre gironi che scandiscono, dantescamente, la struttura narrativa del film (Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue), prologati da un inevitabile Antinferno di spietata premonizione del disastro, i Signori carnefici e protagonisti del film danzano, con fare macabro, sui corpi delle vittime la meccanica dello stupro, della violenza gratuita, della sopraffazione e della coprofagia all’interno dello spazio della Villa che rappresenta quell’idea di alterità e sospensione dal tempo della Storia che l’atto prevaricatore e sadico impone.
I racconti delle tre Narratrici – ex puttane convocate a celebrare, per l’occasione, le conseguenze assassine del discorso, della parola, del linguaggio – celebrano i tre gironi attraverso una dinamica verbale che, dalla pagina di Sade, si proietta nella messa in scena cinematografica per mezzo di una rappresentazione violenta di quel mondo invivibile che serpeggia tra le pieghe del linguaggio. È proprio la parola sadica a creare quel meccanismo anarchico attraverso cui il Potere rappresenta il proprio lacerante spettacolo. Lo spazio della violenza, dello stupro e della prevaricazione come nuovo, possibile, linguaggio universale: il lessico del mondo invivibile.
Immagine di copertina: CameraLook.it
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Autore articolo
Ivano Capocciama
Regista e insegnante
Insegnante di lettere, studioso di teatro, mi occupo di regia e drammaturgia. Il mio lavoro artistico passa attraverso la letteratura drammatica moderna e contemporanea, la storiografia teatrale europea, i Teatri Laboratorio, l’Antropologia Teatrale e, soprattutto, i rapporti tra drammaturgia e spettacolo. Dal 2004 collaboro con vari istituti scolastici e scuole di recitazione, in qualità di regista, insegnante di movimento scenico, training attoriale, pratiche di messa in scena e studi di arte scenica per cantanti lirici.