E se esistesse – finalmente – una cura alla cecità? Solo qualche mese fa, infatti, ci è stato comunicato che “si stanno iniziando a vedere i primi spiragli di luce”: una notizia straordinaria, che ha come protagonista un uomo di 58 anni, cieco dalla maggiore età; un caso studio eccezionale, che rappresenta la prima ufficiale applicazione di successo della cosiddetta “optogenetica”.
“Introdotto nel 2006 da Karl Deisseroth, il termine optogenetica descrive un insieme di tecniche che nel loro complesso consentono di rendere una qualsiasi cellula nervosa responsiva agli stimoli luminosi. L’idea di base è quella di attivare/inibire con la luce un neurone che normalmente non è in grado di rispondere a tale stimolo”[1].
La ricerca, guidata dall’oftalmologo José-Alain Sahel dello University of Pittsburgh Medical Center, è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature Medicine lo scorso 24 maggio.
L’optogenetica vs. la retinite pigmentosa
La sperimentazione clinica si è svolta presso la GenSight Biologics, un’azienda biotech con sede centrale a Parigi, coinvolgendo persone affette da retinite pigmentosa (RP), una malattia genetica dell’occhio, ma che può anche essere acquisita.
Si tratta di una distrofia retinica progressiva, colpevole della morte dei fotorecettori, i neuroni specializzati che si trovano sulla retina. Quest’ultimi si dicono “specializzati” perché ne esistono di più tipi, ciascuno con una propria funzione specifica: coni e bastoncelli.
I primi si trovano nella zona centrale della retina e hanno una funzione cosiddetta “fotopica”, che consente la visione dei colori. I secondi, invece, si concentrano nella zona periferica e hanno una funzione cosiddetta “scotopica”, che consente la visione al buio (uno dei primi sintomi della RP consiste proprio nella riduzione della capacità visiva notturna, fino alla totale perdita di quest’ultima). Coni e bastoncelli insieme assolvono un’altra funzione, che è detta “mesopica” e che si attiva quando il livello di illuminazione è intermedio tra il diurno e il notturno.
I fotorecettori, dunque, trasformano la luce che entra nell’occhio in segnali bioelettrici, che arrivano al cervello attraverso il nervo ottico, trasmessi dalle cellule gangliari retiniche. La terapia optogenetica testata dalla GenSight prevede proprio di skippare questo passaggio, sostituendo ai fotorecettori danneggiati un virus e recapitando, tramite quest’ultimo, proteine fotosensibili di origine batterica alle cellule gangliari retiniche, permettendo loro di rilevare le immagini direttamente.
Così, il virus è stato iniettato negli occhi dell’uomo affetto da retinite pigmentosa sopracitato. Prima di procedere ai test visivi, però, i ricercatori si sono dati 4 mesi di tempo per assicurarsi che la produzione delle proteine si fosse stabilizzata.
La sperimentazione della terapia optogenetica
Capire quanta e quale tipo di luce far entrare nell’occhio è stata la vera sfida per il team di ricerca del Prof. Sahel. Una retina in buono stato di salute, infatti, utilizza una vasta gamma di cellule e proteine fotosensibili per vedere un ampio spettro di luce.
Per ovviare a questa difficoltà, si è pensato di ingegnerizzare un set di occhiali protettivi, capaci di catturare le informazioni visive intorno all’uomo e, cosa più importante, di ottimizzarle affinché potessero essere effettivamente rilevate dalle proteine batteriche prodottesi a seguito dell’iniezione.
Gli occhiali sono stati concepiti per funzionare grazie ad una videocamera, che permette loro di analizzare i cambi di contrasto e luminosità e di convertirli in tempo reale in quello che è stato definito dal leader dei ricercatori come un “cielo stellato” di puntini ambrati. È la luce proveniente da quest’ultimi che, entrando nell’occhio, attiva le proteine e stimola le cellule gangliari. Dopodiché, il cervello, ricevuto il segnale, va a tradurlo in un’immagine.
Il partecipante alla sperimentazione ha dovuto allenarsi per mesi prima di riuscire ad interpretare correttamente i puntini, ma alla fine ha portato a casa un gran successo, soprattutto con immagini a forte contrasto. L’uomo è stato in grado di riconoscere alcuni oggetti su un tavolo, ma anche le strisce degli attraversamenti pedonali. Così, quando i ricercatori hanno analizzato le registrazioni della sua attività cerebrale, si è concluso che la sua corteccia visiva stesse rispondendo esattamente come sarebbe successo in una persona senza problemi di vista.
Quali conclusioni?
Il 58enne non ha potuto recuperare del tutto la sua vista e non può ancora fare a meno degli occhiali protettivi, ma può limitarsi ad indossarli per qualche ora al giorno. A due anni dall’iniezione, continuano comunque ad esserci dei miglioramenti quotidiani.
Nel frattempo, la sperimentazione si è allargata ad altre 6 persone, ma lo scoppio della pandemia da COVID-19 ha ulteriormente esteso il periodo di allenamento necessario perché gli occhiali possano funzionare sui pazienti. I risultati dovrebbero essere disponibili per la prossima primavera.
La GenSight non è l’unica azienda che si sta occupando di sviluppare una terapia optogenetica per la cura della retinite pigmentosa e per il trattamento di altri disturbi della retina. Anche la Bionic Sight, ad esempio, avrebbe sviluppato una terapia simile alla loro. 5 le persone che avrebbero recuperato, pur sempre parzialmente, la vista, ma i loro risultati non sono stati ancora pubblicati. La Novartis, invece, una multinazionale svizzera, starebbe sviluppando una terapia basata su un altro tipo di proteina, talmente fotosensibile che non ci sarebbe nemmeno bisogno di alcun occhiale. La sperimentazione clinica, però, non è ancora stata avviata.
Quella della GenSight Biologics è stata comunque un’importante prima volta. Bisognerà vedere se la loro potrà essere una terapia a tutti gli effetti o se piuttosto non costituirà un primo step, uno strumento di ricerca, nel processo di individuazione di una terapia personalizzata, caso per caso[2].
[1] Cinzia Fabrizi, “Optogenetica”, Enciclopedia italiana, 2015. Consultabile al seguente indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/optogenetica_%28Enciclopedia-Italiana%29/.
[2] Sara Reardon, “Injection of light-sensitive proteins restores blind man’s vision”, Nature, 24 maggio 2021. Disponibile al seguente indirizzo https://www.nature.com/articles/d41586-021-01421-0?utm_source=Nature+Briefing&utm_campaign=cb18b1c8d3-briefing-dy-20210525&utm_medium=email&utm_term=0_c9dfd39373-cb18b1c8d3-46136706.
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Autore articolo
Federica Fiorletta
Redattrice
Laureata in Lingue, Culture e Traduzione Letteraria. Anglista e francesista, balzo dai grandi classici ottocenteschi alle letterature ultracontemporanee. Il mio posto nel mondo è il mondo, viaggio – con il corpo e/o con la mente – e vivo per scrivere.