Era il 1826, nei pressi di Gibilterra, quando furono ritrovati i primi resti di una donna Neanderthal (Homo neanderthalensis). Mancavano ancora diversi anni alla formulazione della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin e per gli scopritori quello scheletro non dovette mostrarsi particolarmente rivelatore.
Solo alcuni decenni più tardi ci si rese conto di aver ritrovato i primi resti di una nuova specie di ominide.
Quella dei Neanderthal era una comunità nomade che ha vissuto sulla terra all’incirca tra i 500.000 e gli 11.700 anni fa. Dai reperti sappiamo che vivevano tra l’Europa occidentale, il Medio Oriente ed i territori siberiani e che per diverso tempo hanno convissuto con l’Homo Sapiens.
Nonostante si siano estinti da centinaia di anni, il confronto tra Neanderthal e Sapiens è più vivo che mai: lo testimoniano le numerose ricerche fiorite negli ultimi anni in tutto il mondo, volte ad indagare i punti di contatto e le differenze che hanno portato alla loro separazione.
Il gene Nova1 dei Neanderthal ed i mini-cervelli
È trascorso molto tempo da quel 1826 e la conoscenza sui nostri antenati, nel frattempo, è progredita. Ad oggi sappiamo che le dimensioni del cervello Neanderthal erano molto simili a quelle Sapiens: nonostante le due specie si siano accoppiate tra loro, i Neanderthal non furono mai in grado di raggiungere gli stessi livelli nella tecnologia e nell’arte[1].
Un team di ricercatori guidati da Alysson Moutri dell’Università della California, San Diego, si è domandato in che modo il cervello dei Neanderthal divergesse da quello Sapiens. Per rispondere a questa domanda il genoma umano moderno è stato confrontato con quello neandertaliano e denisoviano – altra specie di ominide estinta, molto vicina ai Sapiens – portando all’individuazione di 61 geni comuni ma che differiscono tra uomo arcaico e moderno. Uno tra questi, il gene Nova1, è responsabile dello sviluppo cerebrale e, più nello specifico, delle sinapsi.
Gli scienziati, dunque, hanno tentato di riprodurre in laboratorio una porzione di cervello di Homo neanderthalensis. Utilizzando la CRISPR-Cas9, i ricercatori hanno dapprima isolato questo gene, poi lo hanno introdotto su cellule staminali pluripotenti umane. Il risultato ha portato alla nascita di organoidi, ciuffi di tessuto simile a quello cerebrale, di 5 millimetri di diametro massimo.
Analizzando il gene Nova1, si è visto che differisce da quello moderno per una sola base azotata. Una modifica piccolissima ma che, a quanto pare, in chiave evolutiva sembrerebbe aver fatto la differenza. Confrontando il tessuto cerebrale ottenuto in laboratorio con quello odierno, si è visto che gli organoidi si presentano lisci e sferici mentre quelli arcaici appaiono ruvidi, complessi e più piccoli. Esiti che confermerebbero l’importanza evoluzionistica della mutazione:
Le differenze tra gli organoidi risultanti sono continuate a livello molecolare. Il team ha trovato 277 geni che avevano un’attività diversa tra il gene antico e gli organoidi umani; alcuni di questi geni sono noti per influenzare lo sviluppo e la connettività neuronale. Di conseguenza, gli organoidi arcaici contenevano diversi livelli di proteine sinapsi e i loro neuroni si attivavano in schemi meno ordinati rispetto a quelli nei tessuti di controllo. Ci sono anche prove che sono maturate più rapidamente[2].
Non si sa con esattezza in che momento dell’evoluzione sia avvenuta la mutazione del gene. I ricercatori non si fanno illusioni circa la reale somiglianza tra questi mini-cervelli ed il funzionamento cerebrale degli ominidi. Ciò che questo studio può fare è aiutare gli scienziati a comprendere meglio alcune delle capacità dell’uomo moderno: comportamento sociale, linguaggio, adattamento, creatività, uso della tecnologia, oltre a scovare la causa dell’insorgenza di alcune patologie cerebrali.
Neanderthal: piccole comunità nomadi con discrete doti linguistiche
Della vita sociale dell’uomo neandertaliano sappiamo molto poco. Non sappiamo con precisione in che modo si organizzasse il loro gruppo ma da diverse ricerche, alcune molto recenti, siamo in grado di formulare nuove ipotesi.
A venirci incontro la scoperta di 257 impronte nei pressi di una spiaggia di Le Rozel, in Normandia (Francia), risalenti a 80 mila anni fa[3]. Si tratta di un vero colpo di fortuna. Le possibilità che si conservassero così tante impronte sulla sabbia, per tutto questo tempo, erano davvero molto basse. Gli scavi sono andati avanti per 5 anni e si è dovuto andare 9 metri in profondità prima di riportarle alla luce.
Oltre alle orme dei piedi sono stati rinvenuti utensili per la lavorazione della pietra e della carne ma nessun resto umano. Ciò che rende interessante questo studio è la ricostruzione in 3D dei calchi dei piedi realizzata dai ricercatori. Con questa operazione si è stati in grado di stimare altezza ed età dei 10-13 individui identificati. Tra questi sorprende la statura di uno dei membri del clan: dalla sua pianta del piede si stima fosse alto 175 centimetri, molto più della media – calcolata sulla base dei resti fossili – che nei Neanderthal si aggirava attorno ai 150-160 centimetri.
Questa scoperta ci dice anche un’altra cosa: il 90% delle impronte appartengono a bambini dai 2 anni in su. Ovviamente è impossibile sapere se questa composizione rappresentasse la normalità per le comunità di Neanderthal o fosse una eccezione. Generalmente erano soliti riunirsi in gruppi di piccole dimensioni, amavano spostarsi regolarmente da un posto ad un altro, si riproducevano tra consanguinei ed avevano una forma di comunicazione abbastanza progredita[4].
Una ricerca guidata dall’antropologa Mercedes Conde-Valverde dell’Università di Alcalà (Madrid) ha ricostruito in 3D l’apparato uditivo neandertaliano[5] ed ha osservato che, con molta probabilità, avevano le stesse capacità uditive dei Sapiens e, quindi, usassero un complesso ed efficiente sistema di comunicazione.
La ricostruzione tridimensionale è stata permessa dall’utilizzo di tomografie computerizzate che confermano la capacità di ascoltare suoni con frequenze tra i 4 ed i 5 kilohertz, come nei Sapiens. Inoltre, gli studiosi hanno osservato che la banda si estendeva verso frequenze legate alla produzione di consonanti, sintomo che erano molto utilizzate nel loro linguaggio che, sebbene fosse ben lontano dall’avere una struttura come la conosciamo oggi, si mostrava comunque più complesso dei suoni gutturali degli altri antenati preistorici.
Microbioma intestinale: un’eredità che stiamo dilapidando
In un recente articolo abbiamo spiegato cosa sia il microbioma intestinale e l’importanza che quest’ultimo riveste nell’espletamento di una serie di funzioni fisiologiche umane.
In un sito archeologico in Spagna, precisamente nella località di El Salt, nei pressi di Alicante, sono stati rinvenuti sedimenti fecali datati a 50.000 anni fa all’interno di un antico insediamento neandertaliano. Un gruppo di ricerca internazionale guidato dall’Università di Bologna è stato in grado di recuperare questi materiali organici ed estrarne il DNA.
Ciò che sappiamo è che il microbioma umano esisteva già prima che Homo neanderthalensis e Homo Sapiens divergessero tra loro in un periodo compreso tra i 700 e gli 800 mila anni fa.
Proprio come accadde per la ricerca sul funzionamento cerebrale di questi ominidi, anche l’analisi del microbioma dell’uomo di Neanderthal è utile per capire come quest’ultimo sia cambiato nei secoli e quali batteri siano più utili al mantenimento di un buono stato di salute.
Sebbene il rischio di contaminazione frazionata da parte del DNA moderno non possa mai essere escluso e i nostri dati debbano essere presi con una certa cautela, l’identificazione di questo antico nucleo del microbioma intestinale umano supporta l’esistenza di simbiosi evolutive con un forte potenziale per avere un impatto importante sulla nostra salute[6].
I ricercatori hanno individuato alcuni batteri neandertaliani ancora presenti nell’intestino dell’uomo moderno: Blautia, Dorea, Roseburia, Rumunicoccus, Subdoligranulum, Faecalibacterium prausnitzii e Bifidobacterium. Tutti batteri complici del metabolismo, della risposta immunitaria e della conversione delle fibre alimentari in acidi grassi a catena corta.
I risultati mostrano che, sebbene parte del microbioma ci sia stato tramandato dai nostri antenati neandertaliani, il nostro intestino è cambiato. Le nuove abitudini, specialmente negli ultimi decenni, stanno creando degli squilibri.
Le prime avvisaglie di riduzione della diversità del microbioma sono visibili: per scongiurare questo processo – ammoniscono gli scienziati – dovremmo seguire stili di vita più sostenibili.
[1] Science Mag, “Neanderthal-inspired ‘minibrains’ hint at what makes modern humans special”, 2021. Consultabile al seguente indirizzo: https://www.sciencemag.org/news/2021/02/neanderthal-inspired-minibrains-hint-what-makes-modern-humans-special
[2] Nature, “Neanderthal-like ‘mini-brains’ created in lab with CRISPR”, 2021. Consultabile al seguente indirizzo: https://www.nature.com/articles/d41586-021-00388-2#:~:text=Researchers%20have%20created%20tiny%2C%20brain,human%20relatives%2C%20Neanderthals%20and%20Denisovans.&text=The%20findings%2C%20published1%20in,allowed%20human%20brains%20to%20evolve
[3] Focus, “Oltre 250 impronte nella sabbia: una finestra senza precedenti sulla vita dei Neanderthal”, 2019. Consultabile al seguente indirizzo: https://www.focus.it/cultura/storia/oltre-250-impronte-nella-sabbia-uno-scorcio-senza-precedenti-di-vita-neanderthal?fbclid=IwAR0exndbZj2jwtwOxbW9fVmRePJ147CfpwAqCco6oa1QK_yKnSlv8iB2nXs
[4] Il Post, “La vita delle donne di Neanderthal”, 2021. Consultabile al seguente indirizzo: https://www.ilpost.it/2021/01/21/donne-neanderthal-cosa-sappiamo/?fbclid=IwAR30KRZxndm7DpPj2i6MX2XF7md_XazxOF2-0ouHUTawQkupKM4mbUZeUkY
[5] Ansa, “I Neanderthal avevano orecchio per il linguaggio, come noi”, 2021. Consultabile al seguente indirizzo: https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/biotech/2021/03/02/i-neanderthal-avevano-orecchio-per-il-linguaggio-come-noi-_39890a08-bd2c-49b8-b303-5d7608921f66.html
[6] Rampelli, S., Turroni, S., Mallol, C. et al. “Components of a Neanderthal gut microbiome recovered from fecal sediments from El Salt”. Commun Biol 4, 169 (2021). https://doi.org/10.1038/s42003-021-01689-y. Consultabile al seguente indirizzo: https://www.nature.com/articles/s42003-021-01689-y#citeas
Autore articolo
Martina Shalipour Jafari
Redattrice
Giornalista pubblicista ed esperta di comunicazione digitale.
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