In questo articolo parlerò utilizzando la prima persona, non per autocelebrazione, ma per l’esatto contrario: probabilmente, per innescare una condivisione, una confessione da ultimo atto.
Di solito si dice che la prima persona evidenzi un’immersione totale dell’autore all’interno di ciò che sta narrando o poetando. L’io è, d’altronde, afflato poetico di immedesimazione, presenza identificativa e determinante di una dichiarazione di identità totalmente interna alla scrittura.
L’io, fin dall’esempio rivoluzionario della lirica greca tra il VII e il VI secolo a.C., ha fatto sì che la sensibilità, l’afflato lirico e la dimensione delle passioni umane divenissero i poli attraverso cui orbitasse l’esperienza poetica: l’io lirico è, per l’appunto, un singolare affresco di sentimenti plurali, dato che esso stesso condensa, in sé, una vastissima panoplia di dimensioni e mondi interni che si tingono di vastità. Parafrasando Salvatore Quasimodo, potrei affermare con una certa audacia che, nella dimensione lirica dell’io, ci si illumina di vastità, non solamente di immensità.
Ci si immerge e ci si perde nella dimensione creativa dell’io. Eugenio Montale, a proposito di immersioni, scrive:
[…] C’è chi si immerge e c’è chi non si immerge. / C’est emmerdant si dice da una parte / e dall’altra. Chi sa da quale parte / ci si immerda di meno. […][1].
L’io è l’esperienza essenziale ed immersiva attraverso la quale si sviluppa un processo creativo che ha come assoluto protagonista l’autore che diviene, a volte e suo malgrado, la pedina di un gioco al massacro autocelebrativo, narcisisticamente auto-fagocitante.
Tutto ciò per spiegare – mi si perdoni l’attenzione prolissa su tali assurde immersioni e deliranti immerdamenti – che in questo breve contributo di pensiero utilizzerò la prima persona per donare al lettore la possibilità di condividere, assieme a me, una confessione che mi sta particolarmente a cuore e su cui ho basato gran parte della mia attività di insegnante (anche se, a tratti, tale concetto potrebbe applicarsi anche al mio fare teatrabile che, oggettivamente, non è poi così distante dalla mia attività di insegnante). Come spesso mi trovo ad ironizzare con colleghi ed amici: insegno letteratura italiana per sopravvivere, faccio teatro per vivere.
Sì, sono un insegnante di letteratura italiana. Mi verrebbe da aggiungere: a scuola e a tempo perso, intendendo per perso il senso che ne dà Dante nel Canto V dell’Inferno: perso sta ad indicare una precisa tinta cromatica che oscilla tra il nero e il viola. Insegnare letteratura (non solamente in un contesto di italianistica!), infatti, significa barcamenarsi all’interno di tale aere perso, quale animal grazïoso e benigno che cerchi degli spiragli di luce all’intero di un sistema solare costellato di pianeti, mondi lontanissimi e zone sconosciute in cui – come accade nello straordinario capolavoro Inside Out di Pete Docter e Ronnie del Carmen (2015) – albergano le emozioni, i sentimenti, le zone di luce e ombra che accompagnano e condizionano l’esistenza di ogni essere umano.
Insegnare letteratura rappresenta, per me, un’azione creativa di natura interstellare che farebbe invidia a Nolan, dato che non esiste nulla di più outsider, out-of-time e outlander dell’esperienza del lettore. Leggere, pertanto, vuol dire essere stranieri in viaggio verso mondi sconosciuti. Ci si attrezza, ci si prepara al viaggio attraverso una con-testualizzazione che espone meraviglie e pericoli, inevitabili durante il percorso … e si parte! Ci si muove per zone oscure, si penetra nei sentieri desolati della complessità, ci si bagna nel mare degli spazi sconfinati e si tenta di scovare, all’interno del perso, le infinite colorazioni del buio. Non è un caso che Roberto Vecchioni intitoli una delle sue ultime meravigliose canzoni: I colori del buio (2011). Scovare le infinite sfumature del perso nel momento in cui ci si perde nel viaggio, dall’oscurità alle dimensioni cromatiche dell’universo: tale è il compito del lettore.
Leggere, pertanto, è cercare sfumature, delineare contorni, declinare i punti, le linee e le superfici – non posso non menzionare il bellissimo saggio di Vasilij Kandinskij, Punto, linea, superficie (1922) – che innalzano le mirabolanti architetture della scrittura. Leggere è ritrovare la via di casa, quando ci si sente persi nel perso e, allo stesso tempo, è perdersi nel perso, perché non si ha proprio voglia di tornare a casa. È così noioso starsene a casa, a volte! D’altronde, che senso ha tornare a casa quando ci sono così tanti pianeti da esplorare attraverso inversioni spazio-temporali, mirabolanti rotazioni e immersioni in una dimensione estrema dell’evasione da sé, dal mondo di cui abbiamo esperienza, dalle angosce e dalle tribolazioni dell’umano sentire?
Leggere significa, a volte, evadere, esiliarsi volontariamente, tentare di ritrovare una dimensione dello smarrimento che si fa sconfinamento, superamento del limite, prevaricazione, tensione verso la decifrazione di segreti inconfessabili che rischiano di mettere seriamente in discussione la nostra percezione del mondo. La scrittura, infatti, non è altro che un’architettura sconosciuta, aliena, altra e alterata che lo scrittore tesse, attraverso il linguaggio, affinché il lettore possa completarne la creazione. Il lettore completa l’opera dello scrittore, la realizza, ne scardina il senso cristallizzandolo in una temperie spasmodica e caleidoscopica di infinite possibilità: il miracolo estatico, primordiale e pericolosissimo dell’interpretazione, dell’analisi testuale che dilania la pagina scritta e porta alla luce segreti inaccessibili. La lettura è, quindi, l’esperienza dell’inaccessibile che si fa ulteriore processo creativo di totale simbiosi cooperativa con l’operato dello scrittore.
L’esperienza del lettore è, quindi, un viaggio inconfessabile attraverso gli spazi dell’inaccessibile. Scrive, a proposito del viaggio, Louis-Ferdinand Céline in una famosa citazione da Viaggio al termine della notte e che prologa La grande bellezza di Paolo Sorrentino (2013):
Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggiare che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita.[2]
[1] Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni, Oscar Mondadori, Milano, 2015.
[2] Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio Edizioni, Milano, 2011.
Autore articolo
Ivano Capocciama
Regista e insegnante
Insegnante di lettere, studioso di teatro, mi occupo di regia e drammaturgia. Il mio lavoro artistico passa attraverso la letteratura drammatica moderna e contemporanea, la storiografia teatrale europea, i Teatri Laboratorio, l’Antropologia Teatrale e, soprattutto, i rapporti tra drammaturgia e spettacolo. Dal 2004 collaboro con vari istituti scolastici e scuole di recitazione, in qualità di regista, insegnante di movimento scenico, training attoriale, pratiche di messa in scena e studi di arte scenica per cantanti lirici.