Abstract: L’articolo propone una riflessione sulla immagine pubblica della scienza a partire da suggestione di ordine storico filosofico fino a toccare problematizzazioni del rapporto contemporaneo tra la scienza e la società civile, nonchè il rapporto tra scienza e istituzioni politiche.
Parole chiave: scienza, società civile, politica.
Multi pertransibunt et augebitur scientia.
Questa frase latina, parafrasando le parole del profeta Daniele (XII, 4), evoca l’immagine che ad essa il Lord Cancelliere di Giacomo I Stuart, sir Francis Bacon, accosta nella pubblicazione del frontespizio della sua opera omnia (mai completata) dell’Instauratio Magna: un vascello che a vele spiegate solca il mare tempestoso delle Colonne d’Ercole. “Molti passeranno e la scienza progredirà”: questa è forse una delle immagini allegoriche più famose della scienza moderna, che evoca in maniera quasi profetica l’avvento delle Rivoluzione scientifica e la nascita della scienza moderna, tutta improntata sull’applicazione del metodo sperimentale galileiano e sullo studio dei fenomeni naturali, avvantaggiata in questo dall’avvento della tecnica, dello strumento, che tanto ha accelerato l’impostazione puramente teorica di astronomi come lo stesso Copernico.
L’idea di una scienza che, abbandonando la disputatio filosofica delle università medievali, uscendo dalle stanze polverose delle biblioteche, si apre invece all’osservazione del mondo naturale (induzione), del fenomeno, attraverso l’ausilio di un metodo sperimentale e l’aiuto dello strumento tecnico, e della fase successiva di sperimentazione in laboratorio del fenomeno osservato alla ricerca delle legge (assioma) che governi il dato fenomeno, è un’eredità della filosofia naturale del Rinascimento.
È proprio il Francis Bacon che, in più luoghi delle sue opere, non ultima la Nuova Atlantide, ci consegna la nuova e prepotente immagine della scienza moderna: una scienza basata sull’applicazione del metodo, della sperimentazione, che è e deve essere il frutto del lavoro di equipe degli scienziati, il cui luogo naturale è l’accademia (la chiama evocativamente “La Casa di Salomone”); un scienza che deve avere in sé il seme della perfettibilità nel tempo, e che soprattutto possiede uno slancio sociale che mai aveva avuto in precedenza. La scienza dice il Lord Cancelliere, deve operare in vista del bene più alto e nobile: “the benefit of mankind”.
Ecco il passaggio di “paradigma”, come lo chiama Thomas Kuhn: agli albori del Seicento, va ormai tramontando l’idea dell’alchimista, del filosofo naturale che alla stregua di Merlino, si chiude nel suo studiolo solitario e indaga le qualità della materia, senza però un metodo, senza considerare la comunità scientifica, tantomeno la dimensione sociale e pubblica che invece è caratteristica della scienza moderna da questo momento in poi. La rappresentazione di questo cambio di passo, che è sia metodologico che gnoseologico, è sicuramente la nascita delle accademie scientifiche.
Anche se la nascita della prima accademia scientifica è un primato tutto italiano vista la fondazione nel 1603 dell’Accademia dei Lincei, approfondire in questa sede la nostra conoscenza sulla britannica “Royal Society” (1660-63 la sua costituzione ufficiale) che nasce sotto l’egida di Giacomo II Stuart, ci serve strumentalmente in questo nostro excursus storico filosofico. Infatti, quando la Royal Society viene fondata, sono passati quasi trent’anni dalla pubblicazione di una operetta, peraltro incompiuta, di Francis Bacon: la Nuova Atlantide, ove viene celebrata in tutta la sua potenza la nuova immagine della scienza moderna, vale a dire operativa esaltazione del metodo sperimentale. La Nuova Atlantide è l’utopia della scienza in quanto tecnica, è la celebrazione dell’avvento della tecnica, ed è considerata l’archetipo ideale che ha ispirato la nascita della Royal Society.
Accademia scientifica dunque, sotto lo spunto galileiano del metodo e l’applicazione della tecnologia nell’indagine naturale, ha però un fine etico: ricercare e conoscere per migliorare la condizione dell’umanità, per sottrarre quest’ultima dalla caducità naturale. In tal senso, la scienza diviene una faccenda pubblica: lo diviene sia in ordine alla “pubblicità” e all’eventuale ricaduta pragmatica delle scoperte scientifiche a vantaggio della società civile, sia nel suo rapporto con l’altra grande istituzione in cui l’accademia scientifica nasce e lavora, vale a dire lo Stato, nel caso della Royal Society la monarchia inglese.
Le accademie scientifiche dunque, nate a partire dai primi anni del Seicento, sono divenute il contraltare pragmatico e tecnico delle medievali università: all’interno di queste nuove strutture riconosciute dal potere temporale del signore o del monarca, la nuova scienza moderna e sperimentale, avvantaggiata dalla tecnica, esercita il suo potere sulla natura. Gli scienziati come in un alveare, allenano il neonato metodo sperimentale galileiano, lavorando in equipe e ognuno in quello che è il suo approccio peculiare al fenomeno; dunque non soltanto raccolgono i dati, testano il fenomeno naturale riproducendolo in laboratorio, ma soprattutto interpretano tali dati tirando fuori la legge, l’assioma.
L’aspetto forse più peculiare della scienza moderna, che ormai si affaccia al secolo del Lumi, è una sempre più settoriale specializzazione, un assoluto ricorso alla tecnica e alle nuove scoperte tecnologiche, nonché un utilizzo di tali scoperte a vantaggio della società civile. Da più parti si riconosce alla scienza moderna la peculiarità di essere stata la fucina delle idee illuminate degli enciclopedisti francesi, degli empiristi inglesi come John Locke, non ultimo delle idee rivoluzionare in campo politico che sfoceranno in tre eventi rivoluzionari importantissimi: la Gloriosa Rivoluzione Inglese, la Rivoluzione Francese, e indirettamente la Rivoluzione Americana. Tre eventi distanti anche un secolo l’uno dall’altro, per chiare connessioni di carattere storico e culturale che qui non analizzeremo, ovviamente.
Ma soprattutto ciò che ci preme mettere in evidenza è quanto la Rivoluzione scientifica nata a cavallo tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Seicento, sia stata la fucina di un altro importante ed epocale evento rivoluzionario: la Rivoluzione Industriale. Il lavoro iniziato nelle accademie scientifiche, la crescente specializzazione delle scienze, l’applicazione della tecnica in ambito alle teorie scientifiche, hanno modificato così capillarmente i paradigmi mentali nel corso di quasi tre secoli, da aver generato veri e propri cambiamenti in ordine tanto culturale e sociale, quanto politico.
Non sarà un caso allora se è suggestione di molti ormai, la considerazione che la nascita della scienza moderna e il cambiamento di paradigma culturale che essa favorì, abbia concorso anche alla formazione della mentalità democratica. Ne sono un esempio lampante le posizioni note in materia di scienza politica e giuridica degli enciclopedisti come Montesquieu, Rousseau, Voltaire e Diderot tanto per citare i più noti. In terra inglese in tal senso si ricordano le posizioni assolutamente democratiche in materia di politica ed istituzioni del già citato John Locke.
Non dimentichiamoci, come abbiamo già ricordato, che la scienza moderna nasce fuori dalle università dove per secoli aveva dominato il principio di autorità e un certo dogmatismo, e dove la filosofia era stata ridotta ad ancella della teologia. Eppure la scienza moderna nasce in contesti socio-politici di tipo monarchico e assolutista, fatta eccezione per l’Inghilterra che inizia il suo cammino verso la monarchia di ordine costituzionale già alla vigilia della Guerra civile inglese (1642), che poi dopo un periodo di interregno con Cromwell e la restaurazione della corona Stuart, sfocerà nella Gloriosa Rivoluzione (1688-89) e nella stipulazione del Bill of Rights, prima carta costituzionale di una monarchia parlamentare.
Inoltre la scienza moderna, all’indomani della costituzione della Royal Society sotto Giacomo II Stuart (in piena fase di restaurazione dopo l’esperienza del protettorato di Cromwell), necessiterà proprio del potere temporale, in questo caso di una monarchia assoluta, per trovare la sua legittimazione agli occhi della società civile e delle università, considerate ancora e comunque il tempio del sapere. Dunque, se da un lato ci troviamo di fronte ad un paradigma scientifico del tutto nuovo, che inaugura la libertà di ricerca opponendosi alla verbosità delle università medievali, suffragata da un metodo nuovo e sperimentale e dall’applicazione della tecnologia, nonché dal lavoro in equipe degli scienziati all’interno delle accademie, dall’altro la nuova scienza ha bisogno, per affermarsi, di un potere precostituito, che le doni da un lato la giusta riconoscibilità, dall’altro legittimità agli occhi dei sapienti delle università. Tale potere non poteva essere che quello temporale.
Dunque la scienza moderna nella sua veste puramente gnoseologica ed epistemologica, si pone come modello ed ispirazione per quelli che saranno gli ideali di democrazia tanto decantati dai filosofi e dagli scienziati dell’Illuminismo; ma nella sua veste pubblica ha bisogno di una struttura che, essendo tale, è lontana dagli ideali stessi di democrazia di cui essa tuttavia è la profeta indiscussa.
La scienza moderna ha sviluppato quelle forme del ragionamento che hanno portato inevitabilmente alla nascita della mentalità democratica prima, delle democrazie dopo, e che sono riconducibili proprio al nuovo atteggiamento degli scienziati e filosofi moderni come Galilei, Bacon, Cartesio, Copernico, Keplero, Brahe, Newton che “escono” dal loro studio polveroso dell’università, per aprirsi alla nascente comunità scientifica. Comunità che ha una vocazione inevitabilmente ecumenica, portata allo scambio di dati, visioni. Ne sono testimonianza gli innumerevoli epistolari di alcuni dei personaggi sopracitati, che sono ormai divenuti una fonte inestimabile di conoscenza da parte di studiosi ed accademici. Gli epistolari infatti, scritti spesso in latino, poichè lingua universale alla stregua del nostro inglese moderno, lingua della cultura, sono, in alcuni casi e per alcuni autori, fondamentali per ricomporre mosaici teoretici a volte mancanti di qualche tessera.
In generale la scienza moderna ha sviluppato forme di ragionamento, che in qualche modo hanno dato vita ai sistemi democratici così come oggi noi li abbiamo ereditati nel mondo contemporaneo. In effetti, il modus e la veste gnoseologica stessa che caratterizza la scienza moderna, ha contribuito alla nascita della cultura democratica, nella misura in cui in essa cogliamo quelle forme di ragionamento che oggi definiamo “libere”, ossia svincolate da un dogmatismo definito; e soprattutto ciò che la scienza moderna ci ha insegnato è il rispetto e il riconoscimento dell’altro, dell’altro punto di vista, la valutazione delle differenti opinioni basandosi su criteri certi, obiettivi e condivisi.
Questo è pressappoco la modalità con cui la neonata comunità scientifica dal Seicento in poi, ha cambiato il paradigma mentale e culturale dell’Occidente, forgiando indirettamente le leggi che poi governeranno la mentalità democratica ed in seguito la nascita vera e propria delle prime forme democratiche istituzionali, come le prime monarchie parlamentari. La concertazione, il confronto su di un piano però riconosciuto e riconoscibile di codici linguistici e deontologici comuni, ha consentito alla scienza di inaugurare il suo percorso “democratico” all’interno di un mondo che tuttavia democratico non era.
Possiamo allora dire che la scienza, così come la conosciamo noi oggi, e la democrazia siano felicemente congiunte, e soprattutto lo siano in virtù di una analoga genesi? In realtà questo rapporto è più che mai complesso. Innanzitutto è palese e sotto gli occhi di tutti che, oggi, la scienza progredisce anche in forme politiche e statali che non sono democratiche, basta rivolgerci ad Oriente.
Inoltre, sembra quasi scontato dirlo e ricordarlo, soprattutto per gli addetti ai lavori, ma nelle faccende scientifiche non si applica il principio di maggioranza, che è invece il cardine del funzionamento degli stati democratici. Ciò nella misura in cui la scienza sfugge (o almeno dovrebbe farlo sempre) ai condizionamenti di ordine politico-ideologico, tanto nella formazione in nuce dei futuri scienziati e ricercatori in seno alle università, sia nel posizionamento degli stessi all’interno delle strutture reputate alla ricerca, il cui accesso è rigidamente governato da un forte ascendente meritocratico. In un meccanismo di selezione così elevata, la democrazia c’entra molto poco, o meglio ci entra nel momento in cui la scienza viene esercitata nel confronto, sul piano oggettivo, e nel momento in cui scende sul piano pubblico attraverso la sua ricaduta tecnologica e soprattutto medica.
Ecco meglio spiegata allora la frase che spesso, in questi giorni tormentati dalla pandemia da SarsCov-2, abbiamo sentito proclamare da molti scienziati chiamati in causa: “la scienza non è democratica”. Cosa significa questa frase? Ci abbiamo riflettuto davvero? Sembra quasi un ossimoro alla luce di quanto detto finora rispetto all’excursus storico-filosofico fatto intorno alla rivoluzione scientifica e alla nascita della scienza moderna.
La scienza non è democratica in seno alla sua stessa procedura gnoseologica e ontologica. Lo è invece la sua ricaduta pratica sulla società civile, nella misura in cui le sue scoperte hanno il fine più nobile, ossia alleviare le sofferenze dell’umanità. Ma allora chi dovrebbe garantire che le scoperte scientifiche, soprattutto quelle che hanno una ricaduta immediata sulla sanità pubblica, siano un diritto di tutti, anche degli strati più svantaggiati della società civile?
La risposta è pressoché scontata, certo: lo Stato, lo stato democratico in particolar modo, sembra il candidato naturale. Ma lo stato democratico è davvero il miglior candidato ad accogliere la comunità scientifica e i frutti che dal suo lavoro derivano? Per problematizzare può tornarci ancora utile il caro Karl Popper e il suo concetto di “società aperta”. Questo concetto infatti, sembrerebbe essere quello più vicino alla forma democratica degli stati.
Sembrerebbe insomma che la democrazia sia la forma che meglio si sposa con il concetto di “società aperta”, vale a dire un concetto di società basata sull’idea stessa di libertà, ma soprattutto di libertà esercitata anche nella possibilità di fallire, sul rispetto delle idee altrui, e basata soprattutto su un esercizio del principio di verità in funzione regolativa e non direttiva.
Ma la democrazia nasconde in se stessa, nei suoi stessi meccanismi, un bug. Quel bug riguarda e mina proprio l’esistenza della libertà. La democrazia infatti nasce per preservare la libertà, nasce per preservare la giustizia, l’uguaglianza, e soprattutto il diritto di ciascuno di noi di essere liberi, di godere della tutela dei nostri diritti attraverso l’esercizio della giustizia, ed in tal senso preservare una società il più equa possibile.
Ma la democrazia non può sicuramente creare questi valori intangibili, che sono tuttavia la linfa da cui essa stessa nasce ed esiste. E soprattutto per preservare tali valori, la democrazia rischia di creare lacci che possono soffocare i valori di tolleranza e libertà su cui essa stessa è fondata. È una vecchia storia: nel momento in cui un’idea si struttura concretamente nella società, allora inizia il suo declino.
Ecco perché quando Popper parla di società aperta e dei suoi valori, annovera proprio nella democrazia il carnefice di quegli stessi valori su cui è fondata. In sostanza una volta che la democrazia si è strutturata, per preservare la libertà e i valori su cui si fonda, non potendoli creare, finalizza tutte le sue scelte in campo politico e le sue riforme proprio a preservare quegli stessi valori, ma irrigidendone il significato e l’esercizio vero e proprio.
Sotto questa scure strutturale cade inevitabilmente anche la scienza che, nello stato e dallo stato, riceve la sua legittimazione. Anche la scienza cade sotto la stretta di questa strutturazione e della volontà di preservare la democrazia stessa. In tal senso uno degli aspetti che la irretisce, è l’esasperata burocratizzazione che caratterizza lo stato moderno e democratico. La burocrazia è esattamente l’esempio lampante delle azioni volte a preservare la democrazia stessa.
È un elemento di controllo che nasce proprio per concedere a tutti, e nella massima trasparenza, l’accesso meritocratico ai vari servizi offerti dallo stato democratico. Pensiamo alla sanità pubblica. Tuttavia, la burocrazia è un elemento che rischia, nei suoi meccanismi di forte controllo, di stritolare quegli stessi principi di libertà ed eguaglianza sui cui si fondano le democrazie contemporanee.
La scienza, a vari livelli, viene investita da tali burocratismi: ne viene investito il processo di selezione degli scienziati stessi e il funzionamento dei laboratori e delle varie strutture che a più titolo si occupano di ricerca, università comprese; ne vengono investiti i meccanismi di finanziamento dei progetti di ricerca. Tuttavia la crescente burocratizzazione di molti aspetti della ricerca, e soprattutto della professione di ricercatore, interferisce negativamente con l’autonomia necessaria affinché la creatività scientifica possa esprimersi liberamente.
Inoltre, tale burocratizzazione, che comunque caratterizza un sistema con una forte vocazione al controllo in vista di un fine meritocratico, rischia di scollare il livello di percezione delle ricerche scientifiche da parte del grande pubblico, della società civile. Ma soprattutto, molti dei problemi legati a questo scollamento tra scienza e società civile, ed anche tra scienza e politica, sono legati da una primaria incomprensione della natura della conoscenza scientifica e dello statuto particolare della scienza.
La colpa più grande che la società civile oggi imputa alla comunità scientifica è quella di non dare risposte certe o soprattutto immediate. Questo atteggiamento dipende dalla non conoscenza da parte della società civile, ed anche da parte dei politici, di uno dei postulati fondamentali della scienza moderna, vale a dire la sua perfettibilità nel tempo, e dunque l’assunto che la scienza non si fonda e non può fondarsi su verità definitive, o almeno non del tutto. Tuttavia, ciò non significa che la scienza non sia in grado di produrre e mettere a disposizione comunque le sue scoperte in un dato momento storico, anzi.
Lo scopo della scienza inoltre, non è quello di produrre certezze; tuttavia essa procede riducendo progressivamente, e anche in tempi molto lunghi, i livelli di incertezza rispetto alla conoscenza della natura. E soprattutto tale processo verso la verità è accompagnato dal controllo continuo rispetto all’affidabilità delle procedure utilizzate, valutando la ricaduta pratica di tali ricerche sul piano applicativo (tecnologia). Queste sono le fasi, alla spicciola, del metodo scientifico.
Inoltre ciò che davvero sfugge, oggi più che mai alla società civile nella percezione dell’utilità della ricerca scientifica, è la ricerca in generale, soprattutto quella di base che non necessariamente trova un suo risvolto applicativo nella tecnologia e spesso si muove su visioni puramente teoriche, che hanno bisogno di anni prima di essere confermate, e quindi di trovare eventualmente una connessione di tipo pratico e tecnologico. Basti pensare alla teoria delle onde gravitazionali, di cui Einstein predisse l’esistenza nel 1916, come conseguenza della sua teoria della “Relatività Generale”, pubblicata nel 1915. Tale teoria è stata confermata solo di recente, nel 2016 quando gli scienziati LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory) hanno annunciato di aver trovato, a un secolo dalla loro formulazione teorica, le prove sperimentali dell’esistenza delle onde gravitazionali, ossia le increspature nel tessuto dello spazio-tempo di cui appunto Einstein formulò l’ipotesi esistenziale. Sono passati esattamente cento anni.
In questo senso, e proprio a causa di questa disaffezione verso la ricerca di base da parte della società civile, i governi tendono a finanziare soprattutto ricerche che hanno delle ricadute applicative anziché la ricerca di base, o comunque tendono a ridurre i finanziamenti destinati a quest’ultima. Ma senza ricerca di base, non possono esserci nemmeno ricadute applicative. E soprattutto senza una conoscenza reale dei meccanismi scientifici, che presuppone dunque anche un atto divulgativo in cui dovrebbero investire le strutture democratiche deputate a farlo, il divario tra scienza e società civile resta, e comincia ad avere ricadute socio-economiche reali.
Basti pensare ai movimenti NoVax o a quello ad essi correlati dei Negazionisti della pandemia da SarsCov-2. Questi movimenti non solo solo faziosi, basando i loro assunti su assiomi assolutamente slegati dalla realtà dei fatti e dalla reale conoscenza scientifica, ma stanno di fatto minando la sicurezza pubblica e nazionale, nascondendosi dietro il concetto di libertà. Ecco che lo scollamento tra scienza e società civile all’interno di sistemi politici democratici porta con sé i suoi mostri, e le sue distopie.
Ma cosa sta facendo realmente la democrazia per preservare l’immagine e la legittimazione della scienza e degli scienziati agli occhi della società civile? La democrazia fa molto, ma potrebbe fare di più; soprattutto i governi, che dovrebbero preservare la struttura e il funzionamento della democrazia stessa, dovrebbero investire molto, tanto di più, sia sull’educazione che sulla ricerca. Questo è un dato di fatto, basta analizzare il PIL destinato dal nostro paese a questi ambiti negli ultimi vent’anni: davvero insufficiente.
Ma prima ancora dei politici, sono gli scienziati stessi a dover cercare un modo per uscire di nuovo dal laboratorio e dall’accademia, per ricucire un rapporto di scambio fruttuoso con la società civile. Ma soprattutto gli scienziati, i ricercatori, gli stessi medici che fanno ricerca clinica dovrebbero ricordarsi della portata etica del loro lavoro; dovrebbero avere consapevolezza della straordinaria importanza della nascita del metodo sperimentale che ormai sono abituati solo ad utilizzare distrattamente, senza comprendere invece l’istanza di libertà che tale metodo porta con sé.
La scienza deve togliersi le vesti di Cassandra, deve comunicare chiaramente e non in maniera occulta, perché essa dice e predice la verità, ma non viene più creduta. Quindi il problema esiste ed è reale, ma non basta arroccarsi nell’antro della Sibilla, non basta più. La mia non vuole essere una redargutio verso o contro la scienza: io amo la scienza e la conoscenza che da essa deriva. Ed è proprio per questo che riconosco che tuttavia, se esistono realtà senza senso ma che hanno seguito come quella dei NoVax o degli QAnon nell’età che celebra la tecnica, la tecnologia e l’ingegneria genetica, che lancia in orbita numerosi astronauti, allora abbiamo un problema.
Tuttavia la scienza non può farlo da sola; ha bisogno ancora, suo malgrado, dell’istituzione pubblica e della politica. La fiaccola di Prometeo ha bisogno di sostenersi sulle spalle di re Salomone. E re Salomone ha bisogno di confrontarsi con Prometeo per esercitare la giustizia, per garantire gli stessi diritti, il diritto alla libertà, alla vita e alla salute, davvero a tutti. La pandemia di SarsCov-2 ha costretto la scienza a venire fuori dal laboratorio, ad esporsi, chiamata alla ribalta per rispondere ad istanze imposte dalla paura della morte, dalla messa in discussione di prerogative esistenziali che ormai, almeno in stati democratici come il nostro, erano scontate.
Inizialmente, nella prima fase della pandemia, la scienza per noi è stata la Speranza; ora che stenta a dare certezze immediate, si è trasformata ai nostri occhi in Cassandra: porta male, predice sciagure. Ecco noi come comunità democratica abbiamo lo stesso compito di Pandora: dobbiamo preservare la Speranza riposta nella Scienza.
La politica e le istituzioni devono rappresentare la cortina su cui si gioca la guerra tra il mondo della Speranza e il mondo della Paura. Oggi la politica e le istituzioni suffragate dal lume della conoscenza e della scienza non possono cedere nemmeno un centimetro di terreno alla paura perché: “Osserva bene paura e speranza, e ogni volta che sarai nell’incertezza, fatti un favore: abbi fiducia in ciò che ti fa sentire meglio. Forse la paura avrà più cose da dirti; tu, comunque, scegli la speranza”.
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Scritti filosofici di Francesco Bacone, (1975) P. Rossi (a cura di), UTET, Torino
Autore articolo
Serena Catallo
Docente
Direttore di Future Brain, Presidente di Fondazione Heal,
Dottore di ricerca in Studio dei testi filosofici, scientifici e letterari
dall’età moderna all’età contemporanea,
Docente di Filosofia e Storia.
“Ogni ricerca, ogni idea, ogni visione è una
freccia a disposizione nella faretra del sapere”.