Daniele Mencarelli è uno scrittore che fa della propria narrazione un sistema da cui poter gettare uno sguardo sul mondo senza far rumore, con indosso una camicia sporca di sangue e il silenzioso rispetto di chi non vuole disturbare il sonno di una persona cara, mentre un respiro affannoso preme in gola e sta per tradursi in un disperato rintocco mortale. Attraverso la scrittura, Daniele ripercorre un progetto esistenziale velato della nostalgica e dolorosa consapevolezza dello smarrimento, del crollo, di un vuoto fluido da cui spuntano pallide tracce di vita, come corpi che riemergono da abissi sconfinati:
“[…] Nella mente un vuoto che sputa di tanto in tanto un colore, un incubo, un volto emerso da chissà dove […]”[1]
L’attenzione di Daniele alla disperazione della condizione umana – grazie anche all’utilizzo di una prima persona che declina la propria cronaca sconfortane – appare evidente fin dalle prime pagine del romanzo in cui egli, quasi ci trovassimo in presenza di un esercizio di teatro di narrazione alla maniera di Marco Paolini o Ascanio Celestini, testimonia disperatamente un percorso di autofagia analitica attraverso cui si delineano le forme di uno spietato autoritratto.
Fondamentale, nel romanzo di Daniele, è il percorso di autocoscienza segnato dalla propria disperata condizione umana che appare al lettore con la stessa nitidezza di un dipinto di Antonio Ligabue. Tra le tele di Ligabue e la scrittura di Daniele, pertanto, si crea una fitta rete di interconnessioni concettuali che innesca una profonda immersione all’interno di una condizione umana segnata dalla costante e incessante risonanza del calvario.
Come nella pittura di Antonio Ligabue, nella scrittura di Daniele l’esperienza del dolore si fa sentimento attraverso cui poter sviluppare una narrazione tesa a curvature e deviazioni dolorose che lasciano oscillare, continuamente, l’attenzione del lettore tra la vertigine ed il senso di smarrimento, tra il viaggio e l’approdo, tra la vita che grida il proprio sussulto assordante e la morte che, col fare guardingo e sinistro di un nemico invisibile, veicola le azioni del protagonista del romanzo tingendo della propria fosca presenza il perpetuo declinarsi del tempo.
È proprio il tempo del racconto, quindi, a subire un deragliamento percettivo coniugato in una condizione duale che avvolge il protagonista: da una parte l’incedere quotidiano di un dolore tanto sottile quanto assordante mentre, di controcanto, il silenzio della fissità e l’impossibilità concreta all’azione amplificata dallo spettro dello sprofondamento nel vuoto che incombe nelle azioni del protagonista (auto-ritrattistiche e autofagiche) descritte e testimoniate da Daniele.
Attraverso il dolore, il protagonista dipinge un moto esistenziale che alberga in una fatica dell’esistere che non può non rimandare al celebre saggio di Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi.
Il percorso tracciato dalle fatiche alcoliche, dissonanti e tumultuose del protagonista del romanzo si dipana in un tessuto narrativo glaciale, disperato e teso alla sottrazione fino al momento in cui l’incontro perturbante con l’universo dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù genera, nell’evoluzione del protagonista, un processo metamorfico che traduce l’esperienza del dolore in un sistema di osservazione del dolore che occupa l’intera narrazione e che inscena, inesorabilmente, un netto capovolgimento del punto di osservazione da cui il personaggio scruta il male.
L’ospedale pediatrico, pertanto, assume nel testo una funzione prolettica di trasformazione: l’edificio ha una vita propria, viene descritto come un organismo complesso, “[…] una lunga arteria che unisce organi su organi […]”[2], vivificato dalla presenza di personaggi che popolano padiglioni, sale d’attesa, camerate e lunghissimi corridoi, quasi fossero abitanti di un pianeta sconosciuto in cui vigono regole incastonate negli sguardi, nei volti, nei silenzi, nelle parole, nelle lacrime e nell’inevitabile e sottilissima ironia che, a tratti, traspare come presenza salvifica.
L’ospedale pediatrico rappresenta, per il protagonista, un luogo altro, uno spazio esperienziale attraverso cui puntare lo sguardo verso un’umanità che tinge lo spazio ospedaliero di una presenza che desta, nel protagonista, una visione di sé velata di una nuova normalità. Il percorso tracciato da Daniele, pertanto, assume l’aspetto di un’avventura spaziale tesa alla metamorfosi: da una parte lo spazio dell’esistenza, della casa, della stanza in cui affondare e affogare secondo un movimento doloroso che rimanda a curvature pietose e auto-ritrattistiche alla maniera di Antonio Ligabue, dall’altra, invece, lo spazio dell’ospedale pediatrico che mette in crisi la propria percezione del reale.
Nelle fiabe classiche, i luoghi, gli spazi, le dimensioni all’interno delle quali si muovono le azioni, sono occasioni di crisi, zone di confine in cui la realtà viene problematizzata, i personaggi mutano e attraversano percorsi di inevitabile ascesa, sprofondamento, mutazione, conversione.
Leggere La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli vuol dire lasciar risuonare il riverbero incessante di un sussulto che si fa cambiamento, vita palpitante, ridefinizione dei confini dell’esistenza e, come viene detto in una bellissima canzone di Gianmaria Testa, testimonianza narrativa di un nuovo[3] modo di contemplare azioni, sguardi e parole inchiodate nella memoria e nella scrittura:
“[…] Mi piacerebbe inventare una parola nuova, dal suono meraviglioso, un lessema che contenga mille sentimenti […]”[4].
[1] Daniele Mencarelli, La casa degli sguardi, Mondadori, Milano, 2018, p. 14.
[2] Op. cit., p. 22.
[3] Il titolo della canzone di Gianmaria Testa è, per l’appunto, Nuovo ed è presente nell’album Vitamia del 2011: “[…] Nuovo come è nuova la stagione / E nuovo il nome che la chiamerà […] Nuovo da lasciare un gusto in gola / Nuovo come una parola che non so […]”.
[4] Op. cit., p. 216.
Autore articolo
Ivano Capocciama
Regista e insegnante
Insegnante di lettere, studioso di teatro, mi occupo di regia e drammaturgia. Il mio lavoro artistico passa attraverso la letteratura drammatica moderna e contemporanea, la storiografia teatrale europea, i Teatri Laboratorio, l’Antropologia Teatrale e, soprattutto, i rapporti tra drammaturgia e spettacolo. Dal 2004 collaboro con vari istituti scolastici e scuole di recitazione, in qualità di regista, insegnante di movimento scenico, training attoriale, pratiche di messa in scena e studi di arte scenica per cantanti lirici.