Il 1° dicembre si celebra la giornata mondiale contro l’AIDS. Sono trascorsi ormai 36 anni dall’isolamento e la scoperta del virus che per anni ha mietuto milioni di vittime, l’HIV. Dalla sua comparsa sono 75,7 milioni le persone che hanno contratto il virus. Ma qual è la differenza tra HIV e AIDS?
Con il termine HIV (Human immunodeficiency virus) si identifica una tipologia di virus che attacca il sistema immunitario, in particolare alcuni globuli bianchi, i linfociti CD4. Al momento della diagnosi, la presenza di anticorpi anti-HIV nell’organismo indica la sieropositività al virus. Tuttavia la presenza dell’infezione non determina la manifestazione, a priori, della malattia. Se non trattata, l’infezione è responsabile di una perdita progressiva dei linfociti CD4 e ne consegue che il corpo umano non è più in grado di rispondere adeguatamente all’attacco di patogeni come altri virus, batteri, protozoi, funghi e contrastare lo sviluppo di alcune forme tumorali. Quando, purtroppo, ciò avviene, ci si imbatte in una diagnosi di AIDS (Acquired immunoe deficiency syndrome). Con questo termine si indentifica, quindi, lo stato clinico che può manifestarsi anche ad anni di distanza dall’esposizione al virus[1].
I dati di HIV e AIDS nel mondo e in Italia
Dagli anni ’80, periodo in cui questa nuova malattia ha dilagato, tanto è stato fatto. Il tasso di mortalità è calato drasticamente negli anni, così come è migliorata la qualità della vita delle persone HIV positive. Ad oggi, sono circa 38 milioni le persone che convivono con questo virus con una media annua di circa 1,7 milioni di nuove diagnosi. Nel mondo sono 26 milioni le persone che nel 2020 hanno avuto accesso alle terapie. Purtroppo c’è anche l’altro lato della medaglia. Le morti da AIDS sono state 690 mila nel mondo. Una diminuzione sostanziale rispetto a dieci anni fa quando il numero di decessi si aggirava attorno a 1.1 milione[2].
Guardando più al contesto italiano, i dati del Ministero della Salute relativi all’anno 2019 parlano di 2531 nuove diagnosi. Una media di 4,2 nuovi casi ogni 100 mila residenti, una media leggermente più bassa rispetto a quella europea che si attesta attorno ai 4,7 casi per 100 mila residenti. La fascia d’età maggiormente interessata è quella compresa tra i 25-29 anni. Un terzo delle nuove diagnosi derivano dalla comparsa di sintomi e patologie correlate. Per quanto riguarda i casi di AIDS, sempre per il 2019, sono 571 (0,9 nuovi casi per 100 mila abitanti). Il numero di decessi si è stabilizzato negli ultimi anni attorno a quota 500[3].
Modalità con cui si contrae l’HIV
Esistono tanti falsi miti che ruotano attorno al mondo dell’HIV-AIDS. Alcuni di questi riguardano le modalità attraverso cui si può contrarre o meno il virus. Ebbene, NON è possibile contrarre l’HIV dando un bacio men che meno un abbraccio a qualcuno. E’ altrettanto improbabile che il contagio possa avvenire utilizzando le posate di qualcun altro o condividendone il cibo, così come non può provenire da morsi e punture di insetti. L’utilizzo promiscuo di un bagno, il sudore, lo starnutire e il tossire, la vicinanza di animali (domestici e non): tutti questi casi non rientrano tra le possibilità di contagio da HIV.
Può essere pericoloso, invece, il contatto e l’ingresso nell’organismo di sangue infetto. Potenzialmente dannosa anche la gravidanza, il parto e il conseguente allattamento del bambino qualora la madre fosse sieropositiva. In ultimo, non per importanza, abbiamo l’attività sessuale non protetta con uso del preservativo.
Terapia, convivenza ed aspettativa di vita
L’aspettativa di vita è nettamente migliorata ed oggi, chi scopre tempestivamente di aver contratto l’HIV può convivere abbastanza bene con il virus. In più, per le persone in trattamento antiretrovirale che almeno da sei mesi mantengono la carica virale a livelli non misurabili, la possibilità di trasmissione del virus ad altri soggetti è pressoché nulla. Come ci viene spiegato nel video qui in basso della pagina Facebook Frocya.
How to Share With Just Friends
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Pubblicato da Facebook App su Venerdì 5 dicembre 2014
Per sapere se si è stati contagiati o meno dal virus basta effettuare un prelievo di sangue. Ma quello su cui dobbiamo davvero lavorare oggi è la prevenzione. Purtroppo le diagnosi arrivano troppo tardi, quando ormai si presentano sintomi importanti. A differenza degli scorsi decenni in cui l’HIV e l’AIDS facevano molta paura, oggi si è portati a sottovalutarla, come se non ci fosse più. La pandemia che ha segnato così profondamente questo 2020, sempre a causa di un virus, sempre a causa di un nemico invisibile, dovrebbe aiutarci a restituire all’AIDS l’importanza che merita. Non bisogna mai sottostimare questi nemici e, al contrario, occorre tenere la guardia sempre alta.
HIV e AIDS, lo stigma della comunità gay e delle subculture
Negli anni ’80 e ’90 quello dell’AIDS era un problema senza soluzione: malattia poco conosciuta per la quale non esisteva alcuna terapia. Quello che si sapeva era che si trattava di una patologia legata ad alcuni comportamenti che ne permettevano la diffusione. Comportamenti, si pensava allora, legati soprattutto alle comunità gay (data la trasmissione per via sessuale) e alle subculture (mondo della droga). Ovviamente oggi sappiamo bene che la trasmissione può avvenire anche tra eterosessuali e, per la verità, attualmente in Italia la maggior parte delle nuove diagnosi proviene proprio da questi casi. Tuttavia, sin dagli inizi la stampa e la tv l’hanno definita “il cancro dei gay” creando uno stigma che si è trascinato sino ad oggi. Ma non solo.
Lo stesso Ministero della Salute tra la fine degli anni ’80 e inizi ’90 promosse tutta una serie di spot pubblicitari per aumentare la consapevolezza tra la popolazione. Ma come lo ha fatto… Rimangono indelebili nella memoria le immagini della campagna del 1990, interamente in bianco e nero, in cui i malati vengono identificati con un alone viola. Ciò che balza all’occhio, oltre il tono paternalistico degli spot, è il giudizio e la stereotipazione nei confronti di determinati comportamenti sociali.
Anche la comunicazione sociale prende a prestito le forme tipiche della pubblicità commerciale per diffondere i propri messaggi. Esistono differenti registri linguistici che è possibile adottare per le campagne di comunicazione ma tendenzialmente…
«[…] la comunicazione sociale fa spesso ricorso a due estremi linguistici: “l’eufemismo” e il “terrorismo”. Nel primo caso la comunicazione è amichevole, positiva, sdrammatizzante e tende a sottolineare le possibili soluzioni ai problemi. Nel secondo caso al contrario si mostrano i drammi, i pericoli, le emergenze, cercando di colpire al cuore del destinatario, utilizzando toni violenti, immagini e parole forti»[4].
Nel fattispecie presa in considerazione, il Ministero della Salute ha scelto di optare per la seconda soluzione, prediligendo l’uso di un linguaggio paternalistico-descrittivo. Questa scelta stilistica ha dalla sua la capacità di esporre in maniera chiara ed esplicita «cosa è opportuno fare e cosa invece si dovrebbe evitare e questa chiarezza costituisce uno dei maggiori vantaggi derivanti dal suo utilizzo»[5]. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia. Il linguaggio paternalistico è eccessivamente dogmatico e risulta essere meno efficace in società secolarizzate come quella italiana in cui a prevalere sono l’individualismo ed il relativismo.
HIV e AIDS nel cinema
Anche il grande schermo ha deciso di affrontare il tema attraverso diverse pellicole. Possiamo citarne un un paio famosissime come Forrest Gump (Robert Zemckis, 1994) e Trainspotting (Danny Boyle, 1996) in cui il tema è marginale rispetto alla trama principale, ma comunque fa la sua comparsa.
Uno dei primi, in termini cronologici, a concentrarsi davvero sul tema è Che mi dici di Willy (Norman René, 1990) in cui si raccontano le vicende di un gruppo di otto amici, tra il 1981 e il 1989, e la diffusione dell’AIDS all’interno della propria comunità gay. Ma i più celebri sono forse degli anni ’90. Philadelphia (Jonathan Demme, 1993), Notti selvagge (Cyril Collard, 1992) e A proposito di donne (Herbert Ross, 1995). Tre film che raccontano la malattia da altrettanti punti di vista. Il primo affronta la questione dell’ingiustizia subita da un avvocato gay licenziato dal suo studio a causa della sua sieropositività; il secondo rappresenta un viaggio interiore, un testamento, da parte del protagonista nonché regista, Cyrill Collard, a cui fu diagnosticata la sieropositività; infine abbiamo uno dei pochi racconti al femminile del tema, con tre donne che condividono un viaggio, durante il quale una delle tre deve fare i conti con la scoperta della malattia.
Più recenti altri tre film che hanno segnato un cambiamento nel modo di raccontare questa malattia. Stiamo parlando di Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013), 120 battiti al minuto (Robin Campillo, 2017) e The Normal Hearth (Ryan Murphy, 2014). Due produzioni statunitensi ed una francese accomunate, però, dalla denuncia dei pregiudizi delle società del tempo nei confronti degli individui con infezione da HIV. Nel primo caso, un magrissimo Matthew McConaughey interpreta Ron Woodroof, omofobo, abituale consumatore di stupefacenti e cavalcatore di tori di Dallas che nel 1986 scopre di essere sieropositivo. Con una prognosi di trenta giorni, inizia la sua battaglia per fornire ai tanti malati di AIDS i medicinali salvavita. Un film che guarda all’interno della comunità di sieropositivi ma anche ai tanti pregiudizi e soprattutto che svela le contraddizioni di una società (americana) in cui a comandare sono le lobby farmaceutiche.
Il film di Campillo, 120 battiti al minuti segue la linea di Dallas Buyers Club, riproponendo uno schema simile ma su misura della società francese degli anni ’90. Una società poco interessata alle istanze della comunità omosessuale che lotta, a ritmo frenetico di musica, per informare quanti più possibile circa il pericolo che l’AIDS rappresenta. Con The Normal Heart, l’ultimo di questa breve rassegna, si pone l’accento su un tema importante ma ai margini nelle pellicole realizzare sul tema dell’HIV-AIDS: quello della perdita. In questo film non si parla solo della lotta per difendersi da questa malattia sconosciuta (parliamo dei primi anni ’80) ma soprattutto del dolore nel perdere così tanti amici senza che si potesse fare nulla per aiutarsi. Lo stesso staff ospedaliero, in quel periodo, trattava i pazienti al pari di appestati, costretti a vivere gli ultimi scampoli della propria vita in solitudine e senza assistenza.
E’ tempo per una nuova comunicazione
Ciò che viene fuori da questa analisi è la necessità di una nuova comunicazione della malattia. Nuova non solo perché dovrebbe essere libera dai pregiudizi ma perché dia nuovo impulso al tema che, come detto, rischia di passare in sordina. I dati ci dicono che ad oggi il problema è sotto controllo. Niente a che vedere con la situazione di trenta-quaranta anni fa ma la mancanza di consapevolezza, soprattutto tra le generazioni più giovani che non hanno vissuto la vera tragedia, può fare molto male. Il 1° dicembre, questo giorno, serve proprio a questo!!
[1] Ministero della Salute, “HIV e AIDS”. Consultabile al seguente indirizzo http://www.salute.gov.it/portale/hiv/dettaglioContenutiHIV.jsp?lingua=italiano&id=5206&area=aids&menu=conoscere
[2] UNAIDS, “GLOBAL HIV STATISTICS”. Consultabile e scaricabile al seguente indirizzo Fact sheet – Latest global and regional statistics on the status of the AIDS epidemic. (unaids.org)
[3] Ministero della Salute, “Hiv e Aids, i dati dell’Istituto superiore di sanità sulle nuove diagnosi in Italia nel 2019”. Consultabile al seguente indirizzo http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=5195
[4] Giovanna Gadotti, Roberto Bernocchi, La pubblicità sociale. Maneggiare con cura, Carocci Editore, Roma, 2015, p. 130.
[5] Op. cit., pag. 154.
Autore articolo
Martina Shalipour Jafari
Redattrice
Giornalista pubblicista ed esperta di comunicazione digitale.
Instancabile lettrice e appassionata di cinema.
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