Sapete come noi esseri umani abbiamo sviluppato le dita? In realtà, c’è sempre stato un certo mistero evolutivo per quanto riguarda le nostre mani, soprattutto quando si è cercato di risalire alle loro primissime origini. Negli ultimi anni, però, la Ricerca è riuscita a fare degli enormi passi avanti in questa direzione.
All’interno della superclasse dei tetrapodi, ovvero dei vertebrati che presentano quattro arti (sebbene in alcuni casi questi siano scomparsi con l’evoluzione), ci sono altri esseri viventi che, come noi, sono dotati di “mani”, anche se con sembianze ed utilità differenti. La struttura di base è comunque la stessa per tutti, ed è per questo che il grande teorico dell’evoluzione Charles Darwin aveva ipotizzato che, per quanto diversi tra noi, in realtà ci fossimo tutti evoluti a partire da un unico antenato comune, già in possesso di arti con dita. Ma quale?
Negli anni i biologi evoluzionisti sono riusciti a raccogliere una serie di prove a sostegno della tesi darwiniana, giungendo alla conclusione che questo antenato comune fosse identificabile in un pesce. Tuttavia, non disponendo di un fossile completo che permettesse di definire esattamente quale tipo di creatura fosse stata quella di transizione dai vertebrati interamente acquatici ai vertebrati tetrapodi terrestri, non si è più riusciti ad indagare oltre questa conclusione. Almeno fino a poco tempo fa… Fino a quando non è stato rinvenuto il primo fossile completo di un pesce risalente a 375 milioni di anni fa: l’Elpistostege watsoni.
Dita: le prime tappe di questa storia evolutiva
Il primo indizio che ha permesso ai ricercatori di trovare un effettivo collegamento tra i pesci e i tetrapodi deriva dal ritrovamento, in territorio baltico, di un fossile di Panderichthys rhombolepis o panderittide. Si tratta di un vertebrato tetrapodomorfo estinto vissuto nel periodo del Devoniano, a cavallo tra il Devoniano superiore e medio, ovvero tra i 384 e i 379 milioni di anni fa circa. Il fossile era caratterizzato da un omero allungato e da un radio e un’ulna piuttosto larghi, oltre che da un teschio molto simile a quello dei tetrapodi.
A seguire, nel 2006, i ricercatori della University of Chicago rinvennero un fossile di Tiktaalik, databile a circa 380 milioni di anni fa e riconducibile al territorio artico canadese. Una scoperta, questa, ancora più importante della precedente, poiché il fossile era dotato di una pinna pettorale piuttosto evoluta, con tanto di ossa degli arti superiori e articolazioni mobili del polso già ben sviluppate. Considerato il numero maggiore di caratteristiche del fossile simili a quelle dei tetrapodi, i ricercatori stabilirono che doveva trattarsi di una forma transizionale tra i pesci come i Panderichthys e i primi tetrapodi. Ma né l’esemplare di Panderichthys né quello di Tiktaalik parevano avere della dita…
A concludere il puzzle sarebbe stato, dunque, un altro fossile, quello di una nuova specie, che sarebbe stato rinvenuto nel 2010, completamente e perfettamente conservato all’interno del Miguasha National Park, in Québec, ovvero all’interno del più importante sito paleontologico per il ritrovamento dei fossili del periodo Devoniano, anche noto come “l’era dei pesci”. Proprio in virtù di questa sua ricchezza di giacimenti fossili che hanno permesso e stanno permettendo ancora di colmare i vuoti nella storia dell’evoluzione della vita sulla Terra, nel 1999 il parco è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
Dita: perché ci è voluto così tanto?
Il Miguasha National Park non è stato, però, l’unico El Dorado dei fossili. Non molto lontano, nella provincia canadese del Nuovo Brunswick, esiste infatti la cosiddetta “Baia dei Calori”, un’insenatura all’interno del Golfo di San Lorenzo. Fu qui che nel 1937 il paleontologo Thomas Stanley Westoll acquistò da un locale un piccolo frammento di teschio. In un articolo pubblicato sulla rivista Nature nel corso dell’anno seguente, Westoll dichiarò di essere in possesso di una perfetta forma transizionale tra i pesci ossei con pinne carnose e i primi animali a 4 arti. Tuttavia, la sua tesi venne accolta con scetticismo da parte dei suoi colleghi a lui contemporanei, per lo più a causa di un’insufficienza di prove.
Quando all’incirca 30 anni dopo, e questa volta di nuovo nel Miguasha National Park, venne ritrovato un altro frammento di teschio della stessa a specie, comunque la Ricerca non poté subito andare avanti, poiché lo scopritore del fossile, il collezionista Allan Parent, lo conservò all’interno della sua collezione privata fino al giorno della sua morte.
Dita: il punto di svolta nel 2010
Il punto di svolta si ebbe, dunque, il 4 agosto del 2010. Per prima venne rinvenuta la coda, poi tutto il fossile di Elpistostege watsoni, inglobato nelle rocce sedimentarie sulla spiaggia ai piedi della scogliera del Miguasha, nella tipica formazione Escuminac del Québec. Per poterne studiare anche la struttura interna, il fossile venne spedito presso la University of Texas, per essere scansionato con la massima precisione e risoluzione allora garantibili. Dopodiché, venne rimosso dalla roccia.
La particolarità di questo fossile stava proprio nella sua pinna pettorale, che mai in nessun altro caso si era potuto osservare nella sua interezza e così tanto nel dettaglio. Sembrava quasi del tutto simile a quella degli esemplari di Tiktaalik, ma pareva anche esserci qualcosa di più. Generalmente, infatti, alla fine della pinna pettorale si trovano delle piccole ossa dette “radiali”, presenti anche in questo caso, ma disposte atipicamente in piccole file, così da far pensare che potesse trattarsi proprio delle future dita. I ricercatori conclusero che il fossile era ed è il più vicino al gruppo dei tetrapodi che include tutti quelli viventi insieme al loro antenato comune, fino ad allora identificato nel Tiktaalik, prima che in mezzo vi si inserisse l’Elpistostege. Le nostre dita deriverebbero quindi proprio dalle ossa finali della pinna di questo pesce, presumibilmente utili ad equilibrare il peso per permettergli di spingersi nuotando. Dietro la testa del fossile sono state trovate anche due aperture simili a quelle dei pesci moderni, che dovevano essere utilizzate infatti per respirare: gli Elpistostege watsoni abitavano le acque basse dei fiumi e degli estuari e in questo modo potevano concedersi qualche boccata d’aria.
Dita: qual è la conclusione?
Ai ricercatori resta ancora da capire quanti siano stati, poi, gli episodi evolutivi che hanno portato alla trasformazione della pinna in mano: uno, due o addirittura tre? ll dibattito è tuttora in corso, ma certo è che l’Elpistostege è stato per la paleontologia una vera e propria Stele di Rosetta, che ci ha permesso di iniziare a risolvere il mistero di come le pinne di alcuni pesci si siano evolute in arti, facendo così in modo che i vertebrati conquistassero il mondo[1].
[1] Cfr. John A. Long, Richard Cloutier, “How a 380-Million-Year-Old Fish Gave Us Fingers”, Scientific American, 1 giugno 2020. Consultabile al seguente indirizzo https://www.scientificamerican.com/article/how-a-380-million-year-old-fish-gave-us-fingers/.
Autore articolo
Federica Fiorletta
Redattrice
Laureata in Lingue, Culture e Traduzione Letteraria. Anglista e francesista, balzo dai grandi classici ottocenteschi alle letterature ultracontemporanee. Il mio posto nel mondo è il mondo, viaggio – con il corpo e/o con la mente – e vivo per scrivere.