Il titolo di questa recensione è banale, ma la verità è che ci calza a pennello. Da qualche settimana ormai, ha fatto il suo debutto su Netflix una nuova teen serie, Come uccidono le brave ragazze, tratta dalla trilogia di romanzi di Holly Jackson.
Quando esce un nuovo contenuto siamo tutti euforici e frenetici, soprattutto se il contenuto in questione sembra “una cosa seria” (vale a dire: fatto bene – non una cavolata tappa buchi). In tal senso le premesse c’erano tutte, come l’attrice Emma Mayers, che si è distinta nella serie Wednesday; un bel genere mistery, una regia niente male (Dolly Wells).
Eppure, c’è qualcosa che stride.
Come uccidono le brave ragazze: il mistero si sfoltisce…troppo in fretta
Innanzitutto, c’è da fare una precisazione. Come uccidono le brave ragazze è una mini serie, di conseguenza il numero degli episodi è ridotto. Ma questo non giustifica il ritmo incalzante, eccessivamente incalzante, dell’indagine portata avanti nella storia.
La serie si apre cinque anni dopo uno spiacevole avvenimento: una ragazza viene presumibilmente uccisa dal suo fidanzato, il quale ha lasciato una lettera in cui confessava il tragico atto, per poi suicidarsi. Il corpo della giovane però non è mai stato ritrovato. Pip (Emma Mayers) frequentava lo stesso Liceo di Andy Bell e del suo ragazzo, ed è stata proprio l’ultima persona ad averla vista viva cinque anni prima.
Pip si rivela fin da subito una ragazza intraprendente e intelligente, volenterosa di distinguersi dalla massa. Ecco perché, per la sua domanda al college, decide di fare un progetto proprio sul caso di Andy Bell, cercando di svelare l’alone di mistero sulla sua morte. Da qui inizia l’appassionate indagine, che coinvolge anche altri protagonisti, come Ravi, fratello del presunto assassino di Andy, che stringe un’amicizia con Pip e la supporta in ogni sua intuizione.
Ma le cose corrono troppo in fretta e non lasciano il tempo allo spettatore di assaporarne il mistero, partecipando di fatto all’indagine. Inoltre, la protagonista è fin troppo coraggiosa e, in parte incosciente, tanto da stanare un gruppo di spacciatori adulti completamente da sola. Questo suo lato cozza con quello della ragazzina giudiziosa e intelligente, risultando agli occhi di chi guarda un personaggio ambiguo e finto. Anche le scelte di regia risultano un po’ infelici, a cominciare da alcune inquadrature che la ritraggono in espressioni del viso completamente distaccate dal contesto e dalla situazione.
Come uccidono le brave ragazze: vorrei ma non posso
Neanche fossimo in True Detective o in un episodio di CSI: Miami, Pip riesce in un tempo lampo a decodificare gli indizi che emergono dal suo murale, a cui ha appeso foto, ritagli di giornali, scritte, proprio come nel “migliore” dei film investigativi.
La risoluzione del caso arriva, poi, all’improvviso ed è una concatenazione di eventi troppo grossi, inverosimilmente gestiti da una ragazzina, sia al livello pratico, sia al livello emotivo.
Ed è proprio verso gli ultimi due episodi che lo spettatore non ha più dubbi: la sceneggiatura presenta uno squilibrio notevole, tanto da far pensare se non avessero saltato qualche episodio.
Un punto a favore va alla colonna sonora, che accompagna bene la fotografia della mini serie, creando per lo meno le giuste atmosfere. Ma quello che resta alla fine è un senso di insoddisfazione, di occasione sprecata. È probabile che Netflix voglia proseguire, girando anche il seguito della trilogia dei romanzi.
Quello che possiamo sperare è che, andando al college, siano tutti più maturi e consapevoli. Regia e sceneggiatura inclusi.
Autore articolo
Sara Giovannoni
Redattrice
Copywriter pubblicitario, cinefila, nerd.
Cerco di vivere la vita sempre con la curiosità e lo stupore di un bambino.
Amo scrivere delle cose che mi appassionano,
ecco perché spero di pubblicare, prima o poi, il mio libro sul Giappone.
Intanto keizoku wa chikara nari.
Se volete, andate a cercare il significato!