La scrittura, a volte, può manifestarsi come uno spazio sconfinato all’interno del quale le storie custodiscono mondi sconosciuti attraverso cui declinare un binomio fondamentale tra stanzialità dello sguardo e nomadismo dell’esperienza diretta all’interno della sconfinatezza dello spazio (paesaggistico e verbale) segnato dalla scrittura. Gli scrittori innescano una precisa e articolata architettura di mondi sconosciuti all’interno dei quali si penetra per simbiosi, per catarsi, per immersione, per sconfinata e panoramica contemplazione di un luogo che oscilla tra immaginario e reale, tra razionalità ed essenza estatica della rappresentazione realistica.
Cormac McCarthy appartiene, a tal proposito, ad una tipologia di scrittori che dipingono, attraverso una rappresentazione scarna, essenziale e dis-umana del reale, universi paesaggistici in cui si muovono, per chilometri e chilometri, personaggi che vivificano geografie spaziali ed essenziali in cui le atmosfere si fondono con gli spazi delle storie in una dimensione tipica di sconfinamento, come è possibile leggere nelle prime righe del bellissimo Cavalli selvaggi, romanzo del 1992 che inaugura la Trilogia della frontiera di cui fanno parte anche, diacronicamente, Oltre il confine (1994) e Città della pianura (1998):
“Buio, freddo, non un filo di vento e un sottile chiarore che cominciava a spuntare lungo il confine orientale del mondo […]”[1]
Con pochissimi tratteggi – a carboncino o a matita spuntata, se volessimo immaginare il racconto di Cormac come un esercizio di arte figurativa – lo scrittore americano evoca uno spazio, colto al limite della propria essenzialità pittorica, che fonde cielo e terra in una linearità spietata e tagliente, liminale come il nostro immaginario, solitamente, evoca spulciando nella memoria dei miti cinematografici, del rock e delle pulsioni antropologiche di un’American Dream impalpabile e già tragicamente evocato da John Steinbeck in opere memorabili quali La Valle dell’Eden (1952) e Furore (1939).
Cormac è un paesaggista, un poeta del paesaggio che muove le sue narrazioni attraverso un utilizzo estremo della prospettiva, della vastità, della sconfinatezza che coincide con una precisa visione dell’esistenza: l’uomo è rappresentato come una sorta di pulsante ed errante ferita inferta al paesaggio da un destino che falcia le aspirazioni di personaggi condannati ad un’erranza, a piedi o a cavallo, attraverso una terra maligna – volendo prendere in prestito una bella e poetica intuizione di Giuseppe Tornatore nel suo Nuovo Cinema Paradiso (1988) – ben lontana dal blues assonnato che culla placidamente i paesaggi di Steinbeck, ma tagliente, interna, ammalata e ammantata di tragicità.
Gli spazi che Cormac descrive, nei tre romanzi della Trilogia, non sono altro che rappresentazioni di un territorio nemico: l’America delle strade immense e lunghissime, delle prospettive irraggiungibili e tese verso un ignoto geografico della coscienza dove ci si può smarrire nella contemplazione della vastità, nella desertificazione esplicita che disorienta e sviluppa un panismo della percezione in cui, inesorabilmente, si annega.
I personaggi di Cormac, pertanto, sono figure erranti e proiettate all’interno di un universo paesaggistico in cui il movimento e una spiccata predisposizione allo smarrimento rappresentano i due poli essenziali attraverso cui dipanare l’evoluzione dei destini privati di ogni singolo personaggio. Dimensione privata (spazio interno della coscienza) e paesaggio (spazio esterno della conoscenza e dell’esperienza diretta) si fondono drammaticamente in una dimensione terza (la terzità spazio-temporale del limite) di dilagante sconfinatezza: una commistione tra interno ed esterno ove lasciar smarrire il destino attraverso la pratica atemporale dell’erranza; il segreto dell’esistenza, quindi, vive e si condensa nell’esercizio esperienziale del viaggio, dello spostamento fuori dal tempo e del nomadismo, come è possibile leggere a proposito di John Grady, il protagonista de Cavalli selvaggi:
“Il ragazzo […] infatti era così, ma dava l’impressione che, se fosse nato in uno strano paese privo di cavalli, avrebbe saputo scovarli ugualmente. Perché il mondo fosse a posto o perché lui fosse a posto nel mondo, si sarebbe accorto che mancava qualcosa e sarebbe andato in giro continuamente e dovunque finché non si fosse imbattuto in un cavallo, e allora avrebbe capito subito che il cavallo era e sarebbe sempre stato quel che cercava.”[2]
I personaggi si muovono per spazi selvaggi e al limite in cui la via di casa si smarrisce con estrema facilità ed è possibile dare, per sempre, una svolta alla propria vita cambiando semplicemente direzione di marcia del proprio cavallo, come intuisce Alessandro Baricco in una delle puntate del progetto di divulgazione culturale Totem andato in onda su Rai Due alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Cambiare per sempre, in Cormac, significa scegliere una nuova strada da percorrere all’interno di quello spazio esterno dell’esperienza e della conoscenza in cui si muove in estrema solitudine Billy Parham, il giovanissimo protagonista de Oltre il confine, uno dei romanzi più enigmatici ed appassionanti dell’intera Trilogia mccarthyniana, in cui la voce monologante di Billy, nel suo procedere nomade tra gli Stati Uniti e le montagne del Messico, sembra quasi stimolare una riflessione intorno al valore assoluto dell’erranza anche nella dimensione sconfinata del processo creativo della scrittura.
Oltre il confine, pertanto, non mostra semplicemente il percorso – irto di insidie, deviazioni di rotta, incontri e pericolose vicissitudini – di un bambino che tenta di ricondurre una lupa presso la propria terra d’origine, ma la storia che Cormac presenta contiene, nella propria essenzialità fatta di azioni brevi, immediate e sintetiche, la testimonianza letteraria di una storia d’amore e di relazione simbiotica, profondissima, tra un essere umano ed una lupa.
L’antico stilema fiabesco del rapporto che lega una bestia ed un essere umano – mi viene da pensare, inevitabilmente, al meraviglioso La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro (2017), a Il mostro della Laguna Nera di Jack Arnold (1954), a Vita di Pi di Ang Lee (2014) oppure al classico paradigma disneyano della bella che incontra la bestia – diviene, nella storia di Cormac, la rappresentazione di un processo di corteggiamento tra Billy e la sua lupa che accompagna l’intero road novel segnato da un’indissolubile condivisione di destini bersagliata, di tanto in tanto, da separazioni forzate che tendono a fondere maggiormente i destini dei due protagonisti del romanzo.
Il rapporto che lega Billy alla lupa innesca un dialogo, una risonanza affettiva all’interno di uno spazio incontaminato, selvatico (non selvaggio) e teso all’inverosimile, sospeso tra reale e immaginario: “La strada si snodava attraverso una natura non ancora intaccata dalla civiltà, senza insediamenti umani né altri viaggiatori […]”[3]
Il viaggio oltre il confine tra Stati Uniti e Messico compiuto dai due amanti – in perfetto stile Mickey & Mallory Knox, i due sventurati protagonisti del bellissimo e crudo Natural Born Killers di Oliver Stone (1994[4]) – richiama un’idea di condivisione estrema e nomade di un destino e di una impresa (“Vi sono imprese segnate dal destino che dividono per sempre le vite tra il prima e l’adesso […]”[5] scrive Cormac al principio della seconda parte del romanzo) che fonderà le vite di Billy e della lupa attraverso un paesaggio che diviene scansione di uno sviluppo narrativo in cui le azioni si armonizzano con gli eventi atmosferici e con la natura incontrata, percorsa e attraversata.
In Oltre il confine, pertanto, la storia si fa luogo e il viaggio non è altro che la rappresentazione visiva, fisica e concreta del racconto, perché traccia in maniera indelebile l’essenza stessa della vita, ovvero il ricordo e la narrazione di una memoria indelebile, la testimonianza delle cose che restano:
“[…] questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. […] non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo avere mai finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare. […] tutte le storie sono una cosa sola. Se ascolti come si deve, sono una unica storia.”[6]
Oltre il confine, nella declinazione del viaggio relazionale tra Billy e la sua lupa, evoca anche una sorta di teoria della scrittura ed una riflessione sul senso stesso del produrre letteratura intesa come processo attraverso cui ricondurre una storia a casa, presso la propria terra di origine – esattamente come agisce Billy in relazione alla lupa – sviluppando un sistema di elaborazione paziente e sistematica di un’identità memoriale che necessita della veste narrativa per manifestare la propria essenzialità:
“Il compito del narratore non è facile […]. Pare che sia obbligato a scegliere la storia che racconta tra le tante possibili. Ma naturalmente non è così. Al contrario, si tratta di derivarne tante dall’unica storia. Il narratore deve essere sempre pronto a inventare contro l’obiezione di chi ascolta […] che quel racconto l’ha già sentito. Mette in moto le categorie all’interno delle quali l’ascoltatore desidera far rientrare il racconto nel momento in cui lo ascolta. […] il racconto non è di per sé una categoria ma piuttosto la categoria di tutte le categorie, poiché non c’è nulla che cada fuori i dai suoi confini. Tutto è racconto. Senza alcun dubbio. […]”[7]
Il confine di cui parla Cormac è, per l’appunto, il limite del racconto inteso come categoria essenziale, unica, all’interno della quale si annodano i fili intricati di mille e mille altre storie possibili che il narratore si trova chiamato a dipanare per ricondurle presso una dimensione primigenia.
Il narratore si ritrova a snodare, a riordinare ed a riportare a casa tutte le storie verso una prima storia originaria. D’altronde, abbiamo tutti bisogno di tornare a casa dopo un lungo peregrinare. Anche le storie hanno bisogno di tornare a casa ed è compito del narratore tracciare i loro percorsi attraverso una sorta di estasi memoriale. Ogni storia, pertanto, è un atto di memoria, di nostos, di ritorno in patria, verso un uno indissolubile che, in realtà, è il punto del non-ritorno – volendo citare il titolo di uno straordinario film del 1997 diretto da Paul W. S. Anderson: Punto di non ritorno (non è un caso che il titolo originale sia: Event Horizon) – ove tutto si perde e la sola certezza che resta è la direzione attraverso cui si muove l’inesorabile tempesta della scrittura, oltre i confini estremi e sconfinati della conoscenza:
“[…] anche il mondo ha una sola direzione e non molte e non vi è deviazione possibile in nessun suo punto, per quanto insignificante, perché quel percorso viene fissato da Dio e contiene ogni conseguenza nella sua rotta e fuori da quella rotta non vi è percorso né conseguenza, né alcuna altra cosa. Non c’è mai stata. […] la verità può spesso venire trasmessa da chi ne è totalmente all’oscuro.”[8]
Note
[1] Cormac McCarthy, Cavalli selvaggi, in Cormac McCarthy, Trilogia della frontiera, Einaudi, Torino, 2008, p. 5.
[2] Op. cit., p. 25.
[3] Cormac McCarthy, Oltre il confine, in Cormac McCarthy, Trilogia della frontiera, Einaudi, Torino, 2008, p. 395.
[4] Per un caso fortuito, il film di Oliver Stone esce esattamente nello stesso anno in cui Cormac McCarthy scrive Oltre il confine, il 1994: il potere creativo ed assoluto delle coincidenze.
[5] Op. cit., p. 419.
[6] Op. cit., p. 433.
[7] Ibidem, p. 445.
[8] Ibid., p. 448.
Autore articolo
Ivano Capocciama
Regista e insegnante
Insegnante di lettere, studioso di teatro, mi occupo di regia e drammaturgia. Il mio lavoro artistico passa attraverso la letteratura drammatica moderna e contemporanea, la storiografia teatrale europea, i Teatri Laboratorio, l’Antropologia Teatrale e, soprattutto, i rapporti tra drammaturgia e spettacolo. Dal 2004 collaboro con vari istituti scolastici e scuole di recitazione, in qualità di regista, insegnante di movimento scenico, training attoriale, pratiche di messa in scena e studi di arte scenica per cantanti lirici.