Il 2 Novembre del 1975 muore Pier Paolo Pasolini, brutalmente ammazzato all’Idroscalo di Ostia. Un delitto atroce che, ancora oggi, non può non lasciar stillare dai nostri occhi la rugiada del pianto. Il 2 Novembre del 1975 muore un grande poeta. Giovanna Marini, nel 1979, nel Lamento per la morte di Pasolini canta:
Persi le forze mie, persi l’ingegno / la morte mi è venuta a visitare / <<e leva le gambe tue da questo regno >> / persi le forze mie persi l’ingegno […][1].
Nello stesso anno della scomparsa del poeta di Casarsa (1975) esce, post mortem, Salò o le 120 giornate di Sodoma, requiem pasoliniano di elevatissima eleganza stilistica e mortifera in cui l’autore spalanca i battenti dell’Inferno, traducendo il romanzo di Sade e delineando i contorni di una condizione umana che alimenta se stessa nel dolore assordante delle grida, nella fatiscenza della decomposizione e della putrescenza, nel fetore delle carni al macello e della merda offerta come ultimo pasto prima della disfatta, nel lamento dei sopraffatti, degli sconfitti, dei residui dell’umanità.
Un anno dopo la morte di Pasolini esce, nel 1976, Novecento di Bernardo Bertolucci.
Nello stesso anno (1976) uno stranissimo piano sequenza circolare e avvolgente prologa Brutti, Sporchi e Cattivi di Ettore Scola, un capolavoro che lo stesso regista definisce, in una delle sue ultime apparizioni in pubblico, come il solo ed unico omaggio possibile al poeta morto il 2 Novembre dell’anno precedente, vicino al mare, alla periferia del niente, “sperduto tra il nulla e l’addio”, volendo prendere in prestito una celebre battuta del bellissimo Million Dollar Baby (2004) di Clint Eastwood.
Brutti, Sporchi e Cattivi è un canto corale rumoreggiante di rottami, telai, lamiere, mattoni, fango, terra, ferro, fumo, coratella e corpi, tanti corpi, troppi corpi da cui trasuda e s’esala una malsana e maleodorante condizione di disperata vitalità che sporca, unge, vomita, puzza e fa, del film di Scola, un’esperienza sensoriale. A tal proposito, Francesco Guccini canta in Quello che non … (1990):
[…] Conosci l’odore di strade deserte che portano / a vecchie scoperte, / e a nafta, telai, ciminiere corrose, a periferie / misteriose, / e a rotaie implacabili per nessun dove, a letti, / a brandine, ad alcove? / Lo sai che colore han le nuvole basse e i sedili / di un’ex terza classe? […][2].
La periferia, nel film di Scola, appare sia come spazio di una sensorialità esasperata in cui organico ed inorganico convergono miseramente, sia come ibridazione di ere, di storie, di epoche che, nel loro incedere, lasciano il passo ad un progresso inarrestabile e ad una urbanizzazione in cui il locale pare essere fagocitato dal globale[3] e la realtà contadina – come già intuito da Pasolini – cede il passo ad una disperante contemplazione di un passato archetipico e brutalmente sepolto nel fango.
Il fango, quindi, rappresenta il testo su cui il protagonista del film scrive, a passi strascicati e doloranti, il tempo della Storia, la propria condizione esistenziale e un destino di prossimo sprofondamento, “[…] con quell’andare randagio e sospettoso […]”[4] da cane bastonato – volendo citare una celebre espressione da La Lupa di Giovanni Verga (1880) – come di chi è consapevole di stare attraversando le sabbie mobili ed è prossimo ad annegarvi.
Il protagonista del film ha il nome di un fiore caro ad Apollo ed a Baudelaire: Giacinto.
Giacinto, secondo fonti mitologiche, era amato dal dio Apollo, ma, in casa del protagonista del film, Giacinto non è amato da nessuno: “a casa mia non mi capiscono, non mi vuole bene nessuno, sto sempre solo, solo come un cane”, così confida alla puttana Iside (chiamata, da lui, “Isida”), unico barlume di quella disperata vitalità all’interno del mare di merda e fango in cui annegano tutti i personaggi del film di Scola. Giacinto è cieco da un occhio, un incidente che gli è fruttato un milione di lire come indennizzo da parte dell’assicurazione: “cecato con la calce viva”.
Per quel milione, Giacinto darebbe la vita. Il suo occhio per un milione!, volendo parodizzare il famosissimo grido disperato e, allo stesso tempo, ironico che chiude il Riccardo III di Shakespeare: “Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!”[5]. Effettivamente, Riccardo sapeva che con un buon cavallo sarebbe potuto fuggire dalla battaglia e aver salva la pelle, ma anche Giacinto sa bene che con un milione avrebbe potuto salvarsi (chi lo sa?) almeno per un po’, prima di morire, prima di sprofondare nell’oblio. Giacinto ha racchiuso tutti i suoi sogni in quel pacco da un milione di lire che infila dappertutto e che assomiglia, a tratti, alla cassetta dei denari di Arpagone ne L’Avaro di Molière, personaggio straordinariamente interpretato da Peppino De Filippo in una delle sue ultime apparizioni teatrali. Giacinto oscilla, come una bestia, tra l’ira, la disperazione, l’urlo, il gemito e il guaito all’interno di uno spazio che lo vuole protagonista assoluto, vittima sacrificale immolata su un altare di pasta cotta, melanzane fritte, pomidoro, uva passa, pane grattato, noci, pecorino e veleno per i topi.
Il protagonista del film, Giacinto Mazzatella, ha il corpo, la voce e gli sguardi di un celeberrimo Nino Manfredi che inscena, in questa interpretazione, il suo canto del cigno.
Manfredi, pertanto, non interpreta un personaggio, ma lo dipinge, lo estirpa dalla carne, dalla pelle, da un linguaggio che mescola dialetti di un Meridione italiano ctonio, antichissimo, smarrito dietro una periferica e fangosa immagine della Storia. Manfredi, quando si muove per le baracche della zona romana di Monte Ciocci, oscilla tra dimensioni opposte, mondi inconciliabili che si ritrovano, artisticamente, ad essere riconciliati nel corpo dell’attore, in un tipo di tecnica interpretativa di stampo (quasi!) impressionista: l’umano e l’animale, la malinconia e la decomposizione, lo smarrimento e la sopravvivenza, il cane e il ratto, l’insetto e l’uccello, il condannato a morte e l’ultima traccia dell’antico, il primo uomo sulla Terra nel momento della creazione (Genesi) e l’ultimo uomo sulla Terra sopravvissuto alla catastrofe (Apocalisse).
Manfredi, pertanto, si muove tra l’inizio e la fine della vita, in un intervallo di tempo in cui sviluppa una poetica attoriale fatta di sfumature, deviazioni brutali e disperate, sguardi sghembi da ubriaco e gambe che traghettano il corpo nel mare di fango e sporcizia in cui, a tratti, paiono affiorare, alla superficie, barlumi di sogni che, in realtà, non sono altro che ratti e zoccole che brulicano nelle profondità della Storia e divorano ogni cosa: speranze, corpi, mondi, ere geologiche, rimasugli di un’esistenza devastata dalla modernizzazione, dal progresso, dal boom economico del secondo dopoguerra, dagli anni Settanta, dallo smarrimento, dal crollo delle ideologie.
Nella sua interpretazione, Nino Manfredi racconta un’Italia che non c’è più e ciò che è rimasto in vita non è altro che il racconto disperato ed esasperante di un abisso. Di questo abisso sconfinato, Nino Manfredi è poeta, cantore, pittore e vittima.
[1] Giovanna Marini, Lamento per la morte di Pasolini (1979) in Giovanna Marini, Correvano coi carri, Ala Bianca, 1996.
[2] Francesco Guccini, Quello che non … in Francesco Guccini, Quello che non …, EMI, 1990.
[3] Cfr. Clifford Geertz, Mondo globale, mondi locali, Il Mulino, Bologna, 1999.
[4] Giovanni Verga, La Lupa in Giovanni Verga, Tutte le novelle, Einaudi, Torino, 2015.
[5] William Shakespeare, Riccardo III, Garzanti, Milano, 2015.
Autore articolo
Ivano Capocciama
Regista e insegnante
Insegnante di lettere, studioso di teatro, mi occupo di regia e drammaturgia. Il mio lavoro artistico passa attraverso la letteratura drammatica moderna e contemporanea, la storiografia teatrale europea, i Teatri Laboratorio, l’Antropologia Teatrale e, soprattutto, i rapporti tra drammaturgia e spettacolo. Dal 2004 collaboro con vari istituti scolastici e scuole di recitazione, in qualità di regista, insegnante di movimento scenico, training attoriale, pratiche di messa in scena e studi di arte scenica per cantanti lirici.