Dal greco ànthropos (uomo) e lògos (discorso), l’antropologia è, letteralmente, la scienza che studia l’uomo, dove per “uomo” devono intendersi, ovviamente, sia i singoli che le comunità.
Originatisi in ambito propriamente scientifico, e in seguito sviluppatisi anche in ambito umanistico, gli studi antropologici si sono diversificati nel tempo in funzione di diversi orizzonti conoscitivi e, quindi, di metodi d’indagine[1].
Inoltre, proprio per poter essere effettivamente “scienza dell’uomo” a “tuttotondo”, quello dell’antropologia è venuto a configurarsi come un campo di studio e di ricerca multidisciplinare.
Future Brain ha avuto l’occasione di intervistare l’antropologa molecolare Olga Rickards, docente e direttrice del Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, nonché responsabile del Centro di Antropologia Molecolare per lo Studio del DNA Antico.
Olga Rickards conduce attività di ricerca negli ambiti dell’antropologia e dell’archeo-antropologia molecolare, che sono “volte alla ricostruzione della storia evolutiva delle popolazioni umane attraverso le analisi del DNA mitocondriale e nucleare in campioni attuali ed in esemplari archeologici”[2].
“L’antropologia si occupa di studiare l’umanità”, ha ribadito la Prof.ssa Rickards, spiegandoci, poi, che “l’antropologia molecolare ne studia [specificamente] biologia ed evoluzione, utilizzando le informazioni ricavate dai dati molecolari e, più recentemente, dalle biomolecole antiche”.
Di che tipo di riconoscimento gode la sua materia di studio e di ricerca? Quanto si è potuto già fare e quanto si potrà fare ancora?
A partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, con l’introduzione dell’analisi molecolare in antropologia, così come in ogni settore della biologia e della medicina, la ricerca ha fatto dei veri e propri passi in avanti, risolvendo alcuni dei quesiti centrali della nostra storia evolutiva che l’analisi classica, quella basata sullo studio anatomo-morfologico dei resti scheletrici, non era riuscita a risolvere: il momento della separazione evolutiva tra la linea umana e quella delle [scimmie] antropomorfe; l’origine della nostra specie e i suoi rapporti con gli altri ominidi ormai estinti; lo studio del popolamento delle varie aree del mondo.
Il prossimo futuro, grazie agli studi di paleogenomica e paleoproteomica e grazie all’applicazione di sofisticati metodi bioinformatici e computazionali, ci consentirà di far luce su altri passaggi del nostro passato, che si sta rivelando estremamente complesso e ricco di interazioni con altri gruppi di un’umanità ormai estinta.
Quanto interesse mostrano i suoi studenti nei confronti della materia?
Io insegno nei corsi di laurea triennale e magistrale, sia di area biologica che letteraria, e devo dire che nel complesso gli studenti sono molti attirati dalla comprensione del nostro passato.
Ormai, si parla sempre più spesso di donne e scienza, di ruoli e di contributi “al femminile” tanto importanti quanto quelli “al maschile”, e lo si fa sempre nei termini di una parità che è ancora da raggiungere.
Questa volta, però, volevamo ragionare con lei non tanto della sua identità di donna e scienziata quanto, invece, dell’importanza che – quasi in controtendenza – viene riconosciuta proprio all’elemento “femminile”, più che a quello “maschile”, nel campo di studio e di ricerca di sua competenza.
Negli studi evolutivi, infatti, il DNA più utilizzato è quello mitocondriale: di cosa si tratta, a cosa serve e perché viene preferito?
Il DNA mitocondriale si trova nei mitocondri, organelli del citoplasma della cellula, che rappresentano delle vere e proprie centrali energetiche per la cellula attraverso la cosiddetta “fosforilazione ossidativa”. Il DNA mitocondriale (mtDNA) umano consiste di molecole piccole (lunghe 16.569 coppie di basi), circolari e chiuse, e ha delle caratteristiche che lo rendono lo strumento ideale negli studi evolutivi: è presente nelle cellule in un gran numero di copie, il che lo rende il DNA idoneo per sopravvivere nel tempo; evolve velocemente, rappresentando un orologio molecolare con un ticchettio molto rapido; viene trasmesso solo per via materna, raccontandoci in questo modo la nostra storia al femminile.
Lei si occupa di ricostruire le varie tappe evolutive della popolazione umana. Qual è la nostra origine?
La nostra origine è unica, africana e recente (circa 200.00 mila anni fa).
L’uomo moderno è originariamente un migrante. Anche quella della migrazione, come quella della donna, è una questione attuale e ampiamente discussa. Si tratta di uno dei temi caldi della società contemporanea. Vorremmo rifletterci intorno un po’ meno politicamente e un po’ più scientificamente di quanto non si faccia abitualmente.
Riabilitare la figura del migrante, ancora troppo frequentemente oggetto di discriminazione, si può e si deve. La scienza ha già dato il suo grande contributo dicendoci che la razza non esiste. Che cosa significa?
L’umanità, e non soltanto la nostra specie, da sempre è migrata, per necessità o per scelta, e si è mescolata. Cosa che continuiamo e continueremo a fare. Ed è per questo che non è possibile suddividere la nostra specie in razze biologiche distinte.
Che cos’è il “DNA antico”?
Il DNA antico è il materiale genetico che si può recuperare da resti biologici fossili o subfossili: ossa, denti, capelli, tessuti mummificati, coproliti e, più recentemente, addirittura dal materiale organico che contamina gli strati geologici, che consiste in frammenti microscopici di denti e ossa e in residui di liquidi organici e di tessuti molli decomposti. Insomma, si può risalire al DNA dei nostri antenati, così come di qualunque altro essere vivente, pur in assenza dei loro fossili.
Nel DNA moderno ci sono ancora tracce di quello antico?
Nel genoma delle attuali popolazioni umane si è trovata traccia di tratti di genoma antico che ci sono stati trasmessi, attraverso il mescolamento, dai nostri antenati arcaici come i neandertaliani, distribuiti nell’Eurasia occidentale, e i denisovani, anticamente diffusi in Asia orientale e in Oceania, anche se con proporzioni diverse: minime in Africa (0,3%) e mediamente attorno al 2% nelle altre popolazioni. Recentemente è stato scoperto che tra il 2 – 19% del genoma delle attuali popolazioni africane deriva da una specie umana superarcaica sconosciuta a cui ancora non è stato dato un nome.
Nonostante le ripetute ibridazioni tra la nostra specie e i nostri antenati ormai estinti, i tratti di DNA neandertaliano e denisovano non sono uniformemente distribuiti nel genoma delle popolazioni umane moderne: il mescolamento potrebbe essersi rivelato dannoso e pertanto, nel tempo, l’evoluzione ne ha cancellato completamente le tracce. Le aree in cui sono scarsi i tratti di genoma ancestrale sono quelle ricche di geni collegati con il cervello.
Inoltre, l’ascendenza neandertaliana e denisovana non è presente nel cromosoma X e nei geni espressi nei testicoli: l’introduzione di questi tratti di DNA arcaici avrebbe ridotto la fertilità nei maschi, come osservato in natura in ibridi tra gruppi altamente divergenti della stessa specie o tra specie diverse. Ci sarebbe stata una sorta di incompatibilità riproduttiva.
Al contrario, le aree del genoma dove sono concentrati tratti derivati dai neandertaliani o dai denisovani sono le regioni coinvolte con i livelli degli zuccheri nel sangue, con il metabolismo dei grassi e con il sistema immunitario, ben noto come bersaglio dell’evoluzione.
Di fatto, l’ibridazione di Homo Sapiens con i neandertaliani e i denisovani, che vivevano nell’area euro-asiatica da centinaia di migliaia di anni, avrebbe potuto fornire ai nostri antenati, che si andavano diffondendo fuori dall’Africa, varianti genetiche più adatte alla sopravvivenza nelle nuove aree che andavano a colonizzare, sia a livello ambientale che immunitario. Un processo noto come introgressione adattativa, ben documentato nelle piante e nei batteri e che potrebbe essere stato un importante fattore nell’adattamento della nostra specie.
Sembrerebbe che i geni denisovani siano legati a un più acuto senso dell’olfatto nei papua della Nuova Guinea e a un più efficiente adattamento alle alte altitudini nei tibetani. Mentre i geni neandertaliani distribuiti tra le popolazioni nel mondo avrebbero verosimilmente contribuito all’avere pelle e capelli più resistenti e pertanto al far sopportare meglio, ai migranti dall’Africa, le rigide temperature delle alte latitudini.
Un’altra variante vantaggiosa ereditata da Neandertal è la V660L del gene PGR, che sul cromosoma 11 codifica per il recettore del progesterone, l’ormone che svolge un ruolo nel mantenimento delle prime fasi della gravidanza. Quasi una donna su tre con discendenza europea presenta la variante genetica, che ha un effetto favorevole sulla fertilità.
Studiando l’evoluzione, si è mai trovata nel DNA umano una qualche traccia di eventi epidemici/pandemici simili a quello che ci sta colpendo?
Sì. Ad esempio, attraverso lo studio dell’aDNA, si sta facendo luce sull’evoluzione genetica della peste, provocata dal batterio Yersinia pestis.
L’antropologia molecolare può trovare una qualche applicazione nello studio, nel contenimento e nella cura della COVID-19?
Il mescolamento con Neandertal non si è dimostrato sempre positivo. Infatti, sembrerebbe che un segmento genomico arcaico di ~50 kb, che comprende 6 geni, trasmessoci da Neandertal, possa causare negli individui portatori un rischio aumentato di ammalarsi di forme gravi di SARS-CoV-2. Questo aplotipo di origine neandertaliana è quasi del tutto assente in Africa; nell’Asia meridionale ha una frequenza del 30% e in Europa dell’8%, mentre presenta frequenze più basse nell’Asia orientale. La maggiore incidenza la troviamo nel Bangladesh, dove più della metà della popolazione (63%) porta una copia della variante. I ricercatori suppongono che quest’alta frequenza sia dovuta a pregressi effetti benefici che l’aplotipo avrebbe conferito alle popolazioni dell’Asia meridionale contro altri agenti patogeni.
Tuttavia, in un nuovissimo studio pubblicato su PNAS, sono stati identificati tre geni – OAS1, OAS2 e OAS3 – localizzati uno accanto all’altro sul cromosoma 12, che ci sono stati trasmessi tutti insieme da Neandertal. Infatti, questo aplotipo variante, lungo circa 75.000 coppie di basi, è presente in 3 neandertaliani, uno scoperto in Croazia e risalente a circa 50.000 anni fa e 2 rinvenuti nella Siberia meridionale e datati rispettivamente 70.000 e 120.000 anni fa: al contrario di quanto appena riportato, sembra che sia in grado di ridurre del 22% il rischio di sviluppare casi gravi di COVID-19. Questo aplotipo codifica per enzimi, che sono prodotti a causa di un’infezione virale e che in seguito attivano una serie di reazioni a cascata che portano alla degradazione dei genomi del virus presenti nelle cellule infettate.
La variante è attualmente presente in circa la metà degli individui che vivono al di fuori dell‘Africa.
[1] Cfr. Treccani, “Antropologia”. Consultabile al seguente indirizzo https://www.treccani.it/vocabolario/antropologia.
[2] Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, “Olga Rickards”. Consultabile al seguente indirizzo http://directory.uniroma2.it/index.php/chart/dettagliDocente/4914
Autore articolo
Federica Fiorletta
Redattrice
Laureata in Lingue, Culture e Traduzione Letteraria. Anglista e francesista, balzo dai grandi classici ottocenteschi alle letterature ultracontemporanee. Il mio posto nel mondo è il mondo, viaggio – con il corpo e/o con la mente – e vivo per scrivere.