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Vincenza Conteduca, “fulgida stella” della medicina personalizzata

Intervista all’oncologa e ricercatrice italiana pluripremiata dall’ASCO

Copertina-Intervista-Conteduca

Shoot for the moon.

Even if you miss, you’ll land among the stars.

Les Brown

Caparbietà e tenacia. Oltre la passione, dunque, anche tanta dedizione: eccovi svelato dalla stessa Vincenza – per tutti, Cinzia – Conteduca, oncologa e ricercatrice pluripremiata (l’American Society of Clinical Oncology le ha conferito tre “Merit Award” per tre anni consecutivi), il segreto del successo. Due caratteristiche, l’essere caparbia e l’essere tenace, che, come lei stessa dice, la contraddistinguono soprattutto in quanto donna e in quanto originaria del Sud.

Nata a Barletta, classe ’81, Vincenza Conteduca è laureata in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Bari,  specialista in Oncologia Medica presso lo stesso Ateneo, nonché dottore di ricerca in Oncologia Clinica e Sperimentale presso l’Università degli Studi di Foggia. Dal 2013, è Dirigente Medico presso l’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio dei Tumori “Dino Amadori” di Meldola, riconosciuto come Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.

Oltre ai tre “Conquer Cancer Foundation Merit Award” per gli anni 2017, 2018 e 2019, conferiteli dall’ASCO, Vincenza Conteduca è stata assegnataria di una borsa di ricerca della European Society for Medical Oncology presso l’Institute of Cancer Research di Londra, dove si è distinta per gli studi svolti e i risultati raggiunti, aggiudicandosi, così, sempre da parte dell’ESMO, anche il “Best Fellowship Europe” per l’anno 2017.  Dunque, ricercatrice in Italia, poi in Inghilterra, Vincenza Conteduca è arrivata persino negli Stati Uniti, presso il Weill Cornell Medicine della Cornell University, a New York, e il Dana-Farber Cancer Institute dell’Harvard Medical School, a Boston.

Future Brain ha voluto intervistarla per parlare direttamente con lei del suo lavoro e per indagare – anche da un punto di vista femminile – lo stato della ricerca scientifica in Italia, prima e durante la pandemia di COVID-19.

Dott.ssa Conteduca, lei come si presenterebbe se dovesse rivolgersi anche a “non addetti ai lavori”?

Sono un medico oncologo e mi occupo prevalentemente di tumori urologici e ginecologici presso l’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio dei Tumori. Il mio lavoro, però, combina l’attività clinica in ospedale con l’attività di ricerca  in laboratorio. Infatti, il mio percorso di crescita personale e professionale è sempre stato orientato verso la ricerca traslazionale, per dedicarmi alla quale ho anche trascorso un periodo di oltre 5 anni all’estero, lavorando in vari Istituti tra l’Europa e l’America, occupandomi dell’identificazione di biomarcatori per il tumore della prostata. Da anni, quindi, mi occupo di analizzare il sangue di pazienti affetti da neoplasia prostatica avanzata, utilizzando le più moderne tecniche molecolari per svelare alterazioni genetiche in grado di predire la risposta a diversi trattamenti. Prediligendo la biopsia liquida a quella tissutale, perché meno invasiva e anche più rapida, conduco, dunque, degli studi che permettono di stratificare i pazienti sulla base del loro assetto molecolare e, così, di garantire loro terapie oncologiche sempre più mirate.

A proposito di essere o non essere “addetti ai lavori”, ultimamente si sta parlando molto della “democraticità della scienza”. Secondo lei, per fare e dialogare di scienza bisogna essere formati a farlo?

Senza dubbio, democrazia e scienza sono due pilastri dell’esistenza umana. Giocando con le parole, però, si può riuscire a confondere chi ascolta e a celare quello che, a mio avviso, è il messaggio fondamentale e, cioè, che occorre conoscere la scienza e che, per conoscerla bene, non bastano i libri universitari, ma bisogna anche e soprattutto “sporcarsi le mani” nei laboratori. Credo, dunque, che chiunque faccia ricerca, come me nel mio piccolo, abbia il dovere di informare adeguatamente e correttamente l’opinione pubblica, mettendosi umilmente a disposizione dei “non addetti ai lavori”. A sua volta, poi, ogni cittadino ha il diritto di informarsi, ma – in questo periodo in cui complottismo e negazionismo sono tanto “di moda” – lo si dovrebbe fare senza lasciarsi sopraffare dalle opinioni. Solo così, infatti, si riuscirebbe a democratizzare la scienza per il bene di tutti.

Tornando a lei, per ripercorrere un po’ i suoi passi, ci racconta come è avvenuto il suo incontro con la scienza? E ci spiega come si è orientata nella scelta di intraprendere il percorso della ricerca scientifica?

Ho sempre sognato di fare il medico e fare ricerca è stata la mia priorità fin da quando, entrata nella facoltà di Medicina e Chirurgia, mi sono approcciata al mondo della scienza – un mondo tanto meraviglioso quanto complicato.  Frequentando la Scuola di Specializzazione in Oncologia Medica, sentivo già forte  il bisogno di affiancare alla missione del medico quella del ricercatore. In realtà, ho sempre creduto che la ricerca sia il motore di tutto, anche una fonte di speranza per noi medici, soprattutto per noi oncologi. La ricerca ci spinge ad andare avanti con più fiducia nel futuro, a collaborare condividendo un unico grande obbiettivo: aggiungere un altro tassello ad un puzzle intricato, quello della conoscenza e, dunque, della lotta contro i tumori.

A proposito della sua attività di ricerca, lei può vantare un bel primato: l’American Society of Clinical Oncology le ha assegnato, infatti, ben tre “Merit Award” e per ben tre anni consecutivi. Lei è stata conclamata una dei più promettenti ricercatori al mondo. Ci può parlare di questa sua pluripremiata attività, di quanto già è stato conseguito e di come ancora si potrà/dovrà proseguire?

Questi tre premi internazionali sono il frutto di un lungo percorso intrapreso negli anni passati, durante il quale io e il mio gruppo abbiamo caparbiamente esplorato la possibilità di identificare nel sangue dei pazienti affetti da tumore alla prostata la presenza di  biomarcatori in grado di predire la risposta a diversi trattamenti. Abbiamo studiato le alterazioni genetiche del recettore degli androgeni e di altre molecole coinvolte nella patogenesi del carcinoma prostatico avanzato, sia in pazienti trattati con terapia ormonale che in quelli trattati con chemioterapia. I risultati, presentati al Congresso ASCO di Chicago, hanno mostrato che, in base al profilo molecolare studiato nel DNA circolante del paziente, prima di iniziare una delle diverse terapie, si può decidere quale sia la più efficace nei termini di risposta e, dunque, di sopravvivenza. Naturalmente, si tratta di dati preliminari, nel mio caso come in quello di tanti altri gruppi. La mia ricerca va prospetticamente avanti. Affinché i miei risultati possano essere trasformati in applicazioni cliniche, infatti, bisogna, ampliare il pannello genetico da testare e aumentare la casistica dei pazienti.

Qual è stata la sfida più grande che ha dovuto affrontare finora?

Sicuramente, ottenere proprio i “Merit Award”, perché la ricerca è in continuo fermento e in perenne evoluzione, per cui ogni anno vengono pubblicate scoperte sempre più innovative. Far risultare la mia ricerca competitiva e mantenerla interessante per tre anni consecutivi è stata davvero una grande sfida, allo stesso tempo, però, tra le tante difficoltà e dopo i tanti sacrifici, si è trattato anche di un bel riconoscimento e di un importante traguardo per tutto il mio gruppo. I tre premi ASCO sono anche rappresentativi di un crescente interesse da parte di tutto il mondo scientifico, a livello internazionale, per la “personalizzazione del trattamento” in oncologia.

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Lei si è formata in Italia, al Sud, ma per lavoro si è spostata al Nord. Inoltre, come già detto prima,  ha trascorso alcuni anni anche all’estero, prima nel Regno Unito e poi in America. Cosa ha significato per lei spostarsi sul territorio nazionale e in territorio internazionale? Cosa ne pensa di questa mobilità/precarietà “tipica” della vita da ricercatore (e, a quanto pare, soprattutto del ricercatore italiano)?

Sì, ho avuto la fortuna di poter lavorare presso alcuni dei più importanti Istituti di ricerca al mondo e, nel mio caso, quella di partire per l’estero è stata una scelta dettata da una volontà personale. Io lavoravo già presso l’IRST ed è stato proprio l’Istituto Scientifico Romagnolo a puntare su di me per avviare nuove collaborazioni internazionali. Poi, però, ho tanti amici/colleghi che sono stati costretti a lasciare l’Italia per l’estero e che lo hanno fatto non soltanto per una volontà di crescita personale e professionale, ma anche per una necessità di migliore riconoscimento e di maggiore sostegno.  Infatti, capita ancora troppo spesso ai giovani ricercatori italiani di non ricevere un’adeguata considerazione e una confacente retribuzione da parte del proprio paese.

Sulla base della sua esperienza, allora, cosa significa fare ricerca in Italia rispetto all’estero e viceversa?

Per il nostro paese, purtroppo, la ricerca scientifica non è una priorità, pertanto sono ancora troppo pochi i fondi stanziati per promuovere e sostenere la ricerca, per incentivare i giovani, che, per quanto siano volenterosi, troppo spesso ancora non dispongono delle risorse necessarie ad operare nel migliore dei modi. Rispetto agli altri paesi, dunque, l’Italia non è economicamente competitiva e sufficientemente meritocratica. Poi, però, è anche vero che noi ricercatori italiani ci contraddistinguiamo per caparbietà e tenacia, non soltanto per la nostra passione ma anche per la nostra dedizione. Dico sempre che se abbiamo una marcia in più è così proprio perché siamo stati temprati dalle tante difficoltà e dai tanti sacrifici.

Lei è medico e ricercatore, lo è al femminile. Qual è, attualmente, la sua condizione di donna e quella di tante altre come lei nel mondo della ricerca scientifica?

Grandi donne hanno lasciato un segno indelebile in tutti i campi della scienza, dimostrando che anche una “mente brillante donna” è in grado di far muovere in avanti la ricerca. Lo scorso novembre, in un TED talk della serie TEDxBarlettaWomen, mi sono rivolta proprio alle ricercatrici come me per invitare queste donne a non restare imprigionate nei prototipi e a non aver paura di spiccare il volo, in virtù dell’energia e della capacità di intuizione e di organizzazione che ci contraddistinguono. In quella stessa occasione, e lo ribadisco anche adesso, ho sottolineato che, attualmente, oltre il 60% del personale nei laboratori e negli ospedali è costituito da donne, una percentuale che si spera possa aumentare in futuro. È fondamentale che le donne facciano gruppo tra loro e che condividano con gli uomini posizioni di responsabilità. Far sì che le donne abbiano opportunità di esprimere al meglio le loro capacità innate e di raggiungere i meritati traguardi dovrebbe essere, a mio avviso, una prerogativa non soltanto dell’Italia ma di ogni paese del mondo.

In un momento difficile come quello che stiamo vivendo adesso, è più facile accendere i riflettori su scienza e ricerca. E se ne approfittassimo per consapevolizzarci e renderci effettivamente conto di quanto, indipendentemente dall’ambito, il lavoro dei ricercatori sia di fondamentale importanza nella nostra vita quotidiana?

Il lavoro del ricercatore è prezioso. Non mi stancherò mai di dirlo, perché sono fermamente convinta che una società che non protegge, non sostiene, non premia i suoi ricercatori non ha come interesse primario il benessere dei suoi cittadini, non può ritenersi all’avanguardia nello scenario internazionale, non ha futuro. La pandemia di COVID-19 lo sta dimostrando… Non c’è programma politico e settore economico che non vacilli di fronte ad una tale emergenza sanitaria. Pertanto, spero che questa pandemia serva ad insegnare, soprattutto a chi si trova ai vertici, la centralità della scienza e della ricerca anche nel definire e nell’attuare una qualsiasi strategia politica. Spero che quella data dal COVID-19 sia stata una spinta sufficiente per sensibilizzare le coscienze di tutti a favore della ricerca scientifica, considerando il gran numero di  persone che, lavorando in laboratori ed ospedali, si è messo al servizio dell’intera società, praticamente annullandosi per poter dare ciascuno il proprio contributo in un momento storico così tanto delicato.

Per concludere, le chiediamo se ci sia un consiglio che darebbe a un qualsiasi giovane che intenda intraprendere la strada della ricerca scientifica.

Rispondo brevemente con un aneddoto che utilizzo spesso, soprattutto con i più giovani. Quando qualcuno mi si dice indeciso sul fare, “da grande”, il ricercatore o qualcos’altro, magari qualcosa di completamente diverso, e mi chiede un consiglio, io suggerisco sempre a quel qualcuno di optare per quell’altra professione e non per quella del ricercatore.  So che può sembrare una contraddizione, ma per me, invece, si tratta più di una provocazione. Quello del ricercatore è un lavoro bellissimo, ma la strada da percorrere è piena di insuccessi e frustrazioni. Occorre avere fin dall’inizio una ferma convinzione, esser disposti fin da subito a far dei sacrifici. È bene che lo si sappia. Non serve dare ai giovani delle illusioni, a loro serve un esempio concreto di cosa significhi essere appassionati e dediti alla propria professione. Io non mi sono mai pentita della scelta fatta, il mio lavoro è una costante fonte di gioia, tanto per me quanto per gli altri. D’altronde, i traguardi dei ricercatori sono i traguardi di tutti, la ricerca si adopera per il bene di tutti, nessuno escluso, teniamolo sempre a mente.

Autore articolo

Federica Fiorletta

Federica Fiorletta

Redattrice

Laureata in Lingue, Culture e Traduzione Letteraria. Anglista e francesista, balzo dai grandi classici ottocenteschi alle letterature  ultracontemporanee. Il mio posto nel  mondo è il mondo, viaggio – con il corpo e/o con la mente – e vivo per scrivere.

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