Possiamo ritenere assodata, ormai, la consapevolezza che la razza non esista a livello biologico ma che esistano delle etnie individuabili sulla base di caratteristiche comuni ai membri della rispettiva comunità. Nonostante ciò i pregiudizi legati all’aspetto fisico delle persone sono ancora molto forti. Primi fra tutti spiccano ancora il colore della pelle ma anche la tipologia di capelli. Tuttavia, mentre sul fronte del tono di carnagione si è aperto un dibattito che non ha bisogno di presentazioni, su quello dei capelli gli esperti si sono accorti che manca una letteratura adeguata. Mancanza che la ricercatrice Tina Lasisi ed il suo team hanno cercato di colmare.
Capelli: da dove partire?
Effettuando una mappatura a livello globale delle variazioni di colore della pelle si è osservato che la loro distribuzione era coerente e quasi perfettamente coincidente con la quantità di radiazioni ultraviolette dell’area geografica. Insomma, più il sole è forte più la pelle è scura e viceversa; la produzione di melanina soddisfa delle esigenze di sopravvivenza contro i raggi UV[1]. Un elemento distintivo, però, trasformato in oggetto discriminante per alcuni gruppi umani, soprattutto per le comunità nere e afroamericane, alle quali è stata imputata anche la responsabilità di possedere capelli ricci e crespi, lontani dalla white beauty norm.
Negli Stati Uniti il processo di discriminazione dietro la forma dei capelli prende il nome di Hairism e conduce a considerare meno affidabile sul lavoro chi possiede i capelli ricci. No, non è uno scherzo! Ed è per questo motivo che le donne afroamericane si sentono obbligate a ricorrere ad acconciature o parrucche per nascondere il proprio look naturale[2]. Almeno se ambiscono a ruoli dirigenziali in cui bisogna essere “presi sul serio”.
“Sul posto di lavoro hanno 3,4 volte in più la probabilità che gli altri percepiscano i loro capelli naturali come non professionali, 1,5 volte in più la possibilità di essere licenziate sempre per i propri capelli, l’80% in più di probabilità di decidere di camuffare i propri capelli naturali e il doppio delle probabilità, rispetto alle donne bianche, di lisciare i ricci per adattarsi al lavoro”[3].
Capelli: fissare degli standard
La descrizione e categorizzazione delle specifiche umane sono iniziate già nell’800 con il naturalista Ernst Haeckel che creando uno standard tassonomico degli uomini parlava di “capelli lanosi”. Non solo. Nel Sud Africa dell’Apartheid la supremazia bianca aveva messo a punto il test della matita per determinare la “razza” di una persona: se la matita rimaneva incastrata nei capelli si era classificati come nativi neri e quindi oggetto di segregazione.
Nonostante la grande rilevanza sociale, Lasisi ed il suo gruppo di lavoro hanno trovato poca letteratura sull’argomento. È opinione di alcuni che con la crescente attenzione verso le discriminazioni, gli antropologi abbiano scelto di non portare avanti ricerche che prendessero in esame pelle e capelli negli ultimi decenni. Gli unici tentativi di razionalizzare una catalogazione dei capelli è stato fatto negli anni ’70 da Daniel Hrdy, dell’Università di Harvard, il quale ha tentato di individuare una metodologia per quantificare la forma di un ricciolo, che ha applicato a sette gruppi di persone nel mondo.
Un primo, larvale tentativo che ha funto da base per gli studi di Lasisi che ha scelto di percorrere questa strada per le sue ricerche che hanno coinvolto alcuni dei parametri dei capelli come curvatura, lunghezza e sezione trasversale. Ebbene, analizzando questi elementi, la ricercatrice ha scoperto che, un po’ come avviene con la melanina, i capelli arricciati servono a proteggere la cute del capo dai raggi UV e a creare strutture di ventilazione che permettono la respirazione.
Non è un pianeta per ricci
Chi è in possesso di una carnagione più scura avrà, con molta probabilità, dei capelli corvini e proprio per questo motivo sarà maggiormente esposto al rischio di razzismo. E ciò può avere delle ricadute anche sulla salute. Le donne di colore sono maggiormente predisposte alla caduta dei capelli, eppure, quando si recano da un dermatologo la forma del capello non viene presa in considerazione.
Si è lasciato aperto un enorme campo di ricerca che al momento non ha risposte da offrire al pubblico nonostante siano numerose le domande di ricerca multidisciplinare da poter seguire. Risposte che potrebbero dare giovamento a milioni di persone.
[1] Hanna Seo, “Untangling Race From Hair”, Sapiens, 2022. Consultabile al seguente indirizzo: https://www.sapiens.org/biology/hair-race-evolution/?utm_source=Nature+Briefing&utm_campaign=e9604042cd-briefing-dy-20220311&utm_medium=email&utm_term=0_c9dfd39373-e9604042cd-46136706
[2] Camilla Fondi, “Hairism: se la discriminazione passa (anche) dai capelli”, frammentirivista.it, 2021. Consultabile al seguente indirizzo: https://www.frammentirivista.it/hairism-spiegazione/
[3] Ibidem, op. cit.