Cosa mangiare per mantenersi in salute e, allo stesso tempo, salvaguardare nientemeno che il nostro pianeta? Se lo sono chiesti, tra gli altri, anche gli autori di Nature, in un articolo pubblicato sul loro sito lo scorso 1 dicembre[1].
All’interno del loro scritto viene riportato il caso-studio di una ricercatrice in ambito salute pubblica della Washington University, Lora Iannotti. Insieme al suo team di ricerca, la studiosa è direttamente impegnata sul campo, nei villaggi costieri vicino a Kilifi, in Kenya, per proporre una soluzione alla malnutrizione dei bambini delle comunità locali.
La ricercatrice è stata inoltre scelta dalla FAO – l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – per fare parte di un comitato ad hoc che, entro il 2024, dovrà elaborare e presentare un report con linee guida in merito a: dieta “ideale”, sicurezza e sostenibilità della filiera agroalimentare.
I villaggi di pescatori dove i bambini non mangiano pesce
Quella che riguarda i bambini kenyoti è una situazione apparentemente paradossale, ma che in realtà ha delle proprie motivazioni – più o meno valide – alla base. Nonostante si tratti di villaggi costieri e, dunque, di villaggi di pescatori, succede, infatti, che ai bambini il pesce non venga dato praticamente mai da mangiare.
Il loro alimento di base (non solo dei più piccoli) è invece rappresentato dal cosiddetto “ugali”, un piatto a base di acqua e farina di mais. Il pesce, infatti, viene molto raramente consumato e piuttosto venduto per poter vivere (o meglio sopravvivere?) di pesca. Mancando il giusto apporto di nutrienti, abituati a consumare dei piatti scarsi e soprattutto incompleti, la crescita dei bambini abitanti dei dintorni di Kilifi molto spesso, purtroppo, subisce un importante ritardo. Anche rispetto alla media nazionale.
Ma cosa stanno facendo, allora, Lora Iannotti e gli altri ricercatori suoi collaboratori? Un esperimento. Per prima cosa, gli studiosi hanno dotato i vari pescatori della zona di alcune nasse modificate così da permettere ai pesci più giovani di scappare. Contrastando la sovrapesca, questo piccolo intervento dovrebbe incentivare la deposizione delle uova e migliorare, col tempo, la salute delle barriere coralline e delle acque oceaniche. Anche il tornaconto economico dovrebbe essere maggiore.
Dopodiché, i ricercatori hanno selezionato un numero pari alla metà della famiglie di pescatori e programmato per loro una serie di visite a casa con tanto di lezioni di cucina. È stato previsto, inoltre, l’invio di una serie di messaggi di incoraggiamento per convincere i genitori partecipanti all’esperimento a dar da mangiare ai propri figli, con una certa regolarità, alcune delle specie marine locali più abbondanti. Tra queste, il pesce coniglio e il polpo. Gli scienziati vogliono verificare se i bambini di queste famiglie, mangiando meglio, diventeranno più alti di quelli per cui non verrà inviato nessun messaggio.
Cosa ci dicono i dati sull’industria agroalimentare
Relativamente all’anno 2017, uno studio ha identificato in un’alimentazione scorretta un fattore di rischio più mortale di quello individuato nel fumo. Al mondo ci sono più di 2 miliardi di persone in sovrappeso o propriamente obese, mentre 811 milioni di persone non assumono il giusto quantitativo calorico.
I primi casi sono più diffusi nei paesi occidentali; i secondi, invece, soprattutto nelle nazioni a basso-medio reddito. Nel frattempo, però, la popolazione mondiale continua ad aumentare e, di pari passo, le abitudini alimentari si occidentalizzano sempre di più. Stando ai calcoli, per far fronte a questa crescita, la produzione di carni, latticini e uova dovrebbe altresì aumentare del 44%.
Attualmente, l’industria agroalimentare è già responsabile di circa ¼ delle emissioni globali di gas serra, del 70% del consumo di acqua e del 40% del consumo di suolo. Si aggiunga a ciò l’impiego di fertilizzanti principalmente responsabili di buona parte dell’inquinamento dei fiumi e delle acque marino-costiere. Se anche riducessimo a zero tutte le altre emissioni, comunque quelle dell’industria agroalimentare sarebbero tali da non garantirci il rispetto dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.
Il 30-50% di queste emissioni deriverebbe dagli allevamenti. Pertanto, se tutte le altre emissioni venissero ridotte a zero e se noi tutti seguissimo una dieta più a base vegetale, solo allora le nostre possibilità di contenere il riscaldamento globale entro il tetto massimo stabilito dall’Unione Europea (pari a 1,5° C) aumenterebbero di circa il 50%[2].
La vera sostenibilità di una dieta plant-based
A questo punto, la domanda è: davvero possiamo tutti, indifferentemente, sostenere una dieta plant-based come “prescrittoci”? Bisogna tenere realisticamente in conto anche la presenza di barriere culturali ed economiche non da poco.
Non tutti gli alimenti, ovviamente, sono allo stesso modo facilmente reperibili ovunque. In alcune parti del mondo, proprio come in Kenya, ad esempio, i prodotti di derivazione animale (tra l’altro, non da allevamento industriale, ma per lo più domestico, privato) costituiscono la soluzione migliore (sia in termini di reperibilità che, dunque, di economicità) per assicurare alla popolazione un’alimentazione che sia completa ed equilibrata a livello di nutrienti.
In conclusione, dunque, e a rigor di logica, va bene che si debba necessariamente e anche urgentemente salvaguardare l’ambiente, il nostro pianeta. Ma alla stregua di quanto si sta mettendo in atto vicino a Kilifi, però, è anche opportuno e più utile esaminare, una per una, tutte le varie realtà socio-economiche, collaborando a stretto contatto con le comunità locali. Sostenibile per il pianeta deve voler dire sostenibile anche per le nazioni più povere. Ognuno di noi può fare la propria piccola parte, ma poi solamente l’unione fa la vera forza.
[1] Gayathri Vaidyanathan, “What humanity should eat to stay healthy and save the planet”, Nature, 1 dicembre 2021. Consultabile al seguente indirizzo https://www.nature.com/articles/d41586-021-03565-5?utm_source=Nature+Briefing&utm_campaign=facfb08f80-briefing-dy-20211202&utm_medium=email&utm_term=0_c9dfd39373-facfb08f80-46136706#ref-CR3.
[2] Cfr. cit.
Autore articolo
Federica Fiorletta
Redattrice
Laureata in Lingue, Culture e Traduzione Letteraria. Anglista e francesista, balzo dai grandi classici ottocenteschi alle letterature ultracontemporanee. Il mio posto nel mondo è il mondo, viaggio – con il corpo e/o con la mente – e vivo per scrivere.